di Monica Viani
Davide Longoni, panificatore e studioso di grano, cereali, farine e lievitazioni, è convinto: «fare il panificatore oggi significa optare per una scelta di libertà: puoi selezionare i produttori di grano, creare diverse tipologie di pane, proporle ai tuoi clienti, educandoli al gusto. Ti relazioni poi con persone ricche di esperienze che non conoscono confini né limiti. Qualche esempio? Poco tempo fa ho ospitato una ragazza italo-palestinese, mentre lo scorso luglio è venuto a trovarmi Alfredo Sironi, un ragazzo di Como, che, dopo un dottorato in storia, ha deciso di fare il fornaio e di aprire un punto vendita a Berlino in un mercato coperto».
La sua passione per il pane è evidente. Ma chi è Davide Longoni? Figlio di una famiglia di panificatori di Carate Brianza, dopo la laurea in Lettere, decide di intraprendere una strada differente. Agli inizi del 2000 in un ristorante milanese assaggia un pane che lo affascina, lo incuriosisce. Non è il pane prodotto dalla sua famiglia, non è il pane prodotto dalla maggior parte dei fornai lombardi. È diverso. È un colpo di fulmine, tanto che Davide decide di fare il panificatore, ma a modo suo.
Come nasce la tua passione per il pane?
Sono un goloso. Fin da giovane sono rimasto affascinato dal mondo del vino, dei formaggi, dei salumi. Quando ho assaggiato per caso un pane che giudicavo estremamente buono, come non mi era mai capitato di mangiare, ho voluto scoprire i motivi che lo rendevano così eccezionale. Ho fatto molta ricerca, ho studiato e attraverso la mia passione ora oriento il consumo dei miei clienti. In un periodo in cui tutti volevano pane di piccole pezzature, sono riuscito a proporre con successo quello di grande pezzatura. Vendo solo pane da mezzo chilo in sù.
Perché sei andato controcorrente rilanciando il pane a grande pezzatura?
Perché è più buono, digeribile ed esalta i profumi. Lo propongo a lievitazione naturale. A differenza del pane prodotto con il lievito di birra non si verifica una fermentazione alcolica, ma acido-lattica che, disgregando l’amido dei cereali, favorisce la conservabilità e la digeribilità. Utilizzo un lievito madre conservato dal 2003.
Convinto sostenitore del lievito madre?
Non per una forma di radicalismo, ma per valorizzare la materia prima. Una volta il pane fatto con il lievito madre si trovava solo in qualche erboristeria. Io ho aggiunto alla sua lavorazione il mio sapere di panificatore artigianale. Il lievito madre è un impasto di farina e acqua colonizzato da lieviti e batteri selvaggi, non indotti, attirati da materiale organico. Questi, attraverso un processo fermentativo, trasformano gli zuccheri della farina in anidride carbonica, un gas che fa gonfiare l’impasto da pane. La pasta madre è poi affascinante, ha una storia antichissima: sembra che sia stata un dono del fiume Nilo. Nell’antico Egitto una piena del fiume allagò un laboratorio di panificazione. Rientrando per pulire, il fornaio trovò un impasto abbandonato cresciuto in volume e lo cucinò. Il pane ottenuto era più profumato e digeribile rispetto al pane azzimo che era solito produrre. Probabilmente il fiume, entrando in contatto con l’impasto, aveva introdotto lieviti utili per la fermentazione. Da allora, l’uomo ha imparato a governare il fenomeno prelevando un pezzo di impasto per conservarlo e trasferirlo nel successivo, trasmettendo così lieviti e batteri. Chi non lo possiede e vuole produrlo da sé deve impastare farina e acqua “inquinata” da un frutto maturo o da yogurt, e aspettare che il composto fermenti per qualche giorno. Poi il lievito madre va conservato attraverso la tecnica dei rinfreschi, aggiungendo cioè periodicamente farina e acqua per alimentare i lieviti.
Contrariamente a tanti panificatori, tu organizzi corsi per fare il pane dedicati ai consumatori. Perché?
Per diffondere la cultura del pane. Oggi esistono diversi blog, molte persone si interessano al mondo della panificazione. L’informazione negli ultimi anni è cresciuta e con essa la consapevolezza di quali caratteristiche debba avere un buon pane. Chi non trova il prodotto che cerca, se lo fa a casa. Io non ho segreti e i miei corsisti sono i miei migliori clienti. Da me imparano gli impasti e le tecniche fondamentali. In quattro anni ho avuto duemila corsisti, nei posti più differenti: cascine, case, oratori, scuole di cucina, camere di commercio. Ho un rapporto privilegiato con i gruppi di acquisto solidale, panifico per Spiga e Madia, un progetto di filiera corta del pane dei “gas” brianzoli, e anche per loro insegno in corsi di panificazione domestica. Il passaparola è per me un modo importante per farmi conoscere.
Altri modi per farsi conoscere?
Mi ha aiutato molto essere associato a Slow Food. Andare personalmente nelle piazze, proporre e spiegare la magia del pane ai consumatori è fondamentale. Il pane sembra un alimento semplice, in realtà nasconde una complessità tutta da raccontare. Il pane è stato un prodotto fortemente voluto dall’uomo. Nella sua storia c’è il ricordo della maledizione divina: “tu uomo lavorerai con gran sudore”. In effetti per ottenere il prodotto devi preparare il terreno per fare crescere il grano, scegliere le sementi adatte al terreno da coltivare, devi macinare il grano e infine devi produrre il pane.
Che cosa è il pane per te?
Salute, cultura, gusto, nutrimento, studio, ricerca e socialità. Il pane non conosce confini, è nato da migrazioni. Così nel mio laboratorio i miei collaboratori vengono da tutta Italia e spesso ospito panificatori di altri Paesi. La diversità è ricchezza. Noi lo dimostriamo con la ricchezza delle nostre proposte regionali. Non dobbiamo fare l’errore della cucina gourmet che ha voluto scimmiottare quella francese, perdendo molte sue peculiarità. La nostra cultura gastronomica è rappresentata dall’osteria. Noi abbiamo la ricchezza di tantissimi borghi, ognuno con almeno un’osteria e un oste che rappresenta e difende la cultura del suo territorio, accogliendo l’ospite e intrattenendo i rapporti con i fornitori locali. Io non voglio seguire l’esempio di alcuni panificatori francesi che sono paysan e boulanger. Preferisco comprare da chi mi assicura di seguire regole condivise.
Tradizione o innovazione?
La tradizione è un’innovazione ben riuscita. Un artigiano vive in un contesto storico. Così, ad esempio, a metà del ‘700 la michetta rispondeva alle esigenze del suo secolo, era un pane modernista, innovativo, non era una proposta tradizionale ma nasceva dalla rivisitazione del passato per rispondere alle nuove necessità del consumatore. Per questo amo la definizione retro-innovazione.
Quali farine proponi ai tuoi clienti?
Farine biologiche, poco raffinate, di cereali spesso recuperati. Scelgo il biologico perché il cereale è per natura generoso, non richiede lavorazioni dannose per il pianeta e per la salute. Preferisco farine poco raffinate perché le farine bianche sono le più povere, prive di crusca, germe di grano, sali minerali e danno pani gonfi ma poco nutrienti. Utilizzo monococco, farro, segale, spelta, grani teneri e duri antichi, molto ricchi di sapori e profumi. Per rispettare la mia filosofia di filiera artigiana preferisco le farine macinate da piccoli mulini, in particolare quelle di Renzo Sobrino e del mulino del Ponte: macinate a pietra, rustiche ma eleganti, capaci di dare al pane una forte personalità. Ho scoperto anche le proposte dell’Azienda Agricola Monticelli di Lodi. Una volta produceva i tipici formaggi lodigiani, poi “uccisi” dal Parmigiano; l’azienda si è convertita allora alla produzione di latte, ma la questione “quote latte” le ha dato il colpo di grazia, quindi è stata chiusa e riaperta solo in tempi recenti proponendo ottime farine.
Farine alternative?
Non sono interessato. Io propongo un pane sano, con poco glutine. Faccio pane gourmet.
Come si diventa un buon panificatore?
È fondamentale uscire dal laboratorio, studiare, fare ricerca. Parlare con gli agricoltori, con i mugnai, con tutti i tuoi possibili fornitori. Presto andrò in Toscana, in Sicilia e nell’Alto Adige.
Un panificatore a cui ti rifai?
Eugenio Pol, anche se non l’ho mai conosciuto.
Esiste il pane buono?
Il pane è un prodotto agricolo, frutto della trasformazione di un frutto della terra. Per fare un buon prodotto è necessario recuperare il rapporto con la materia prima fondamentale: il cereale, che mugnaio e panificatore trasformeranno il primo in farina e il secondo in pane. Il mugnaio deve rispettare il cereale macinando lentamente a pietra, senza scaldare troppo i chicchi. Il panificatore deve contribuire alla riuscita del prodotto, gestendo la fermentazione, quel processo in cui gli amidi si trasformano in zucchero e lieviti. Attraverso un processo biologico i batteri trovano nutrimento, producendo anidride carbonica. Questo processo, che deve essere molto lento, fa crescere l’impasto. Così per fare un buon pane servono buona farina, buon lievito naturale e un ingrediente fondamentale: il tempo.
Dunque è importante la scelta della farina?
Fondamentale. Non mi interessa l’aspetto estetico o la ricerca della leggerezza. In Sicilia un pane ricco di alveoli era considerato portatore di sventura. Il pane doveva durare a lungo e quindi veniva compresso.
Quali sono le caratteristiche dei grani antichi?
I grani moderni sono stati selezionati preferendo resa per ettaro e forza in glutine. È facilitata la lavorazione ma si perde il gusto. Spesso sono poco digeribili. I pani da grani antichi, al contrario, sono pani di sostanza, nutrienti, profumati e digeribili. Io uso il monococco, antenato dei grani moderni, ma anche il farro, la segale e i grani antichi siciliani tuminnia e perciasacchi. Simili al kamut… ma liberi da royalties!
Credi nella semplicità?
Sì, credo nella semplicità che nasconde la complessità, che è frutto di numerose esperienze. La panificazione è una biotecnologia. Noi panificatori, che conosciamo le trasformazioni operate dal lievito, sviluppiamo un’esperienza empirica maturata nel tempo.
Usi il forno a legna?
No, credo nella tecnologia laddove ti aiuta a controllare il prodotto.
Il futuro della panificazione quale sarà?
Bisogna sconfiggere la tirannia esercitata dal grano tenero. Si deve recuperare la cultura del lievito. La pasta madre è biodiversità e la bravura del panificatore sta nel conservarla. Una magia dai sapori alchemici? Trattare il lievito di birra come la pasta madre e viceversa.
Qualche consiglio per non sprecare il pane?
Devi insegnare al cliente a conservarlo. Lo si mantiene in un sacchetto di carta e, prima di consumarlo, lo si rigenera avvolgendolo con la carta stagnola e mettendolo in forno a 150°C per 10 minuti. Così si libera l’acqua degli amidi e il pane torna fresco. Questa tecnica dovrebbe essere usata anche in ristorazione per evitare il congelamento e gli sprechi.
Una regione ricca di grani antichi?
La Sicilia con ben 52 tipologie. Nel mio panificio ha un gran successo il pane ricavato dalla tummina, una varietà antichissima siciliana, detta anche marzuolo perché seminata a marzo e raccolta a giugno. È il grano del pane di Castelvetrano.
I prezzi?
Dai 5 agli 8 euro al chilo.
La differenza tra lievito madre e lievito di birra?
Il lievito di birra, anch’esso naturale, ricorda un campo di mais, mentre quello madre riporta ad una foresta. O proponendo un’altra immagine: il lievito di birra è un concerto solista, quello madre una sinfonia ricca di suoni. Un inno alla biodiversità! Il lievito di birra è poi spesso utilizzato a dismisura dai fornai per accelerare i tempi di lavorazione e questo rende il pane gonfio e indigesto.
Quali sono le caratteristiche di un buon panettone?
Il panettone è il pane delle feste, sempre con lievito naturale, ma arricchito da burro, uova, miele, bacca di vaniglia e frutta. Il mio è un panettone da panificatore, meno ricco e meno alto di quello preparato in pasticceria.
Quali sono gli orari di lavoro di un panificatore?
Dalle 8 di sera fino alle 5 di mattina. Di notte domina il silenzio, si pensa e il lavoro diventa meno duro.