Il giovane pasticcere Federico Rottigni, dopo la formazione in Italia e un periodo all’estero, decide di intraprendere la carriera imprenditoriale con un format che propone un pasto composto da soli dolci, abbinato a un cocktail
Una cena di soli dessert. Il dessert bar è la risposta della pasticceria al fine dining. Il primo ad avventurarsi su questa strada in Italia è stato Federico Rottigni che, dopo una significativa esperienza nei paesi nordici, ha aperto a Milano (in via Crocefisso, 2) il suo Dessert Bar. Solo 11 i posti al bancone, due turni tassativi (20 e 22.15), due proposte di menù da tre e da quattro portate, tutte rigorosamente dessert, in abbinamento a un cocktail. Una vera e propria scommessa, di cui Federico è consapevole e convinto…
Cosa ti ha spinto ad aprire un dessert bar in Italia, un concept ancora pressoché inesplorato?
Sentivo di voler trasmettere qualcosa di più rispetto a quello che si trova nel piatto. Volevo fare in modo che il cliente fosse in grado di percepire i concetti e i sentimenti che provo, che mi fanno divertire, ma anche su cui voglio far riflettere. Tutto quello che viene creato nasce infatti dalla mia natura interiore, in primis come è stato studiato il design del locale. È stato progettato seguendo le mie suggestioni da un architetto bergamasco, Giuseppe Bellinelli, e da un light designer, Francesco Guastella. Abbiamo lavorato insieme in modo che il locale potesse diventare un tutt’uno con l’offerta culinaria. Vi sono la spettacolarità, la pulizia, le linee essenziali, così da creare uno stile nuovo e inesplorato, elegante e sofisticato.
C’è molta ricerca di qualcosa di inedito nelle tue idee di pasticceria e ristorazione. Quali sono le esperienze che ti hanno portato fino a qui?
Non ho una formazione culinaria, anzi, ho iniziato studiando arti visive, fino a quando ho cominciato a nutrire questa passione per la cucina. In quel periodo ho avuto la fortuna di incontrare Gualtiero Marchesi, il quale mi ha consigliato di partire con i dolci per poi passare al salato. Poi dal mondo dei dolci non me ne sono più voluto andare. Ho iniziato così la mia esperienza da Ernst Knam, per poi passare un breve periodo a Villa Crespi e tornare infine a Milano nei grandi hotel di lusso. Da lì, la Norvegia: un’esperienza che mi ha davvero cambiato e a cui devo la persona che sono ora e la mia impostazione di lavoro.
Entriamo nel vivo: spiegaci com’è strutturata l’offerta del tuo dessert bar.
Offriamo due menu degustazione da tre e quattro portate, e il tre è nato con l’idea di offrire una sorta di “primo approccio” all’esperienza. I menù sono composti da dessert al piatto creativi poco dolci, con tre drink in abbinamento. Questi si comportano come se fossero dei veri e propri ingredienti del dessert. A completare un’esperienza totalmente immersiva ci sono la musica, il gioco di luci, i profumi e noi dietro al banco che componiamo il dolce, parliamo e spieghiamo. Il menù è gluten free, l’unica intolleranza che non riusciamo a gestire al momento è quella al lattosio, ma ci stiamo lavorando.
Il primo pensiero che si affaccia alla mente di un “neofita”, quando sente parlare di una cena a base di dolci, è l’eccessiva presenza di zucchero e la stucchevolezza…
È vero, ma si tratta di un’incomprensione. I menu che creiamo sono fortemente misurati sui livelli di zucchero, riusciamo a portare in tavola il piacere di un dessert giocando non sulla dolcezza, ma sulle texture, sulle consistenze, sull’acidità, sulle profondità dei sapori o utilizzando materie prime che per natura sono già dolci. Cerchiamo di utilizzare la tecnica per preparare dei piatti che solletichino prima di tutto la mente. Sono un grande sostenitore dell’idea che il piacere passi prima di tutto dalla testa, poi dalle sensazioni suscitate da ciò che ci circonda e che abbia il suo culmine nel piatto. Ogni portata racchiude svariate preparazioni in un’esperienza gourmet di alto livello, in cui le persone guardano con i loro occhi l’azione e si lasciano stupire da una narrazione, uno storytelling di ciò che stanno vivendo. La tecnica per me non è la sfoglia perfetta, ma gli abbinamenti inusuali, l’introduzione di ingredienti particolari ma calibrati, il saper sorprendere fin dal primo boccone con componenti che di solito non rimandano all’idea di dessert.
Ci fai un esempio?
Il mio Norwegian Forest è composto da estrazione di gemme di pino, estrazione di foglie d’alloro, yogurt di capra. Lo stesso vale per i drink: prepariamo noi gli infusi, in modo da dar vita insieme al dolce a un’alchimia esperienziale. Non troverete il tiramisù con il gin tonic, ma un dessert con grano saraceno, pino, aneto, alloro e yogurt di capra insieme a un drink con vermouth, pino mugo e zenzero.
Quale sarà il next step?
Lo step due sarà elevare l’esperienza al banco. Non dovrà quindi essere importante il numero di piatti ma ciò in cui siamo immersi, un viaggio che può essere di quattro come di sette portate, con dessert più abbondanti o semplici “bites”. Anche il concetto di piatto di per sé verrà infatti superato sempre di più. Andrò avanti a lavorare non solamente sulla ricetta, ma anche su tutto il contesto, le luci, la musica, i profumi. Vorrei che diventasse uno storytelling sempre più immersivo e coinvolgente, in cui le persone arrivano, si siedono, scelgono una tipologia di menù e mi lasciano carta bianca, pronti per vivere un’ora e mezza unica e indimenticabile.