Ma il desiderio si riaccende (in realtà non si era mai spento) quando proprio i genitori aprono una cioccolateria e Federico inizia a essere attratto dalla figura del pasticcere, il “gioielliere” della cucina. Un casuale scambio di battute con Gualtiero Marchesi: «Fai il pasticcere perché un domani, quando sarai un bravo pasticcere, cucinerai a occhi chiusi»… e il dado è tratto.
Quali sono state le esperienze che ti hanno formato?
Nel 2010 mi hanno mandato a fare uno stage di due mesi da Ernst Knam, il pasticcere tedesco noto per la sua severità. «Se resti un mese sei bravo» mi dicevano. Io ci sono rimasto due anni ed è stata la mia prima esperienza importante: non sapevo fare nulla, neppure tenere in mano una frusta, ma ho trovato dei grandi maestri. In particolare devo tanto al mio collega coreano Kim, responsabile allora del laboratorio del cioccolato. Poi sono stato un anno nel ristorante a Villa Crespi e nel 2013 sono approdato all’hotel di lusso Palazzo Parigi a Milano. Sono entrato come commis nel ristorante Cracco a Palazzo. Poi il mastro pasticcere se ne è andato e ho preso le redini io. Era un laboratorio stupendo e poi era veramente tutto fatto in casa. Questa è stata la mia prima esperienza di responsabilità, vissuta forse con incoscienza, perché non avevo né l’esperienza né la competenza che sarebbero state necessarie, ma ho decisamente superato le mie stesse aspettative. Dopo un anno sono stato contattato dal Gallia. Volevano una figura giovane e un po’ fuori dagli schemi. E quindi ho accettato. Sono arrivato a un mese dall’apertura e ho disegnato tutta la linea di pasticceria dell’Hotel, che è tuttora in crescita. Ora siamo ancora in rodaggio: per avere un sistema messo completamente a punto occorrono tre anni.
Quando sei arrivato, quale era la squadra?
Avevo un collega della precedente gestione, che poi è andato via. L’ho creata ex novo. La mia spalla è Morena Del Sordo, una collega di Palazzo Parigi, con la quale sono in perfetta sintonia. Entrambi non abbiamo avuto una formazione alberghiera – lei è laureata in storia dell’arte – ma abbiamo una spiccata sensibilità artistica, una grande apertura mentale e una tale passione che, unita alla formazione sul campo, ci hanno aperto le porte alla professione.
Che linea hai dato all’impostazione della pasticceria del Gallia?
Una linea moderata, pensata con la testa e con il cuore. La testa deve ricordare i parametri di tempi, costi e prezzo di vendita (10 euro in carta), il cuore muove la parte creativa, emozionale, le mie idee di estetica e di gusto, che è quello che arriva al cliente.
Oggi si parla tanto di trend salutistici: come si conciliano con la pasticceria?
La salute è un aspetto importante dell’alimentazione, ma ritengo che la pasticceria sia l’ala del food meno applicabile a certe “limitazioni”. La pasticceria è calorica, se deve essere buona deve essere grassa, dolce. Tuttavia, per me l’attenzione al mangiar sano in pasticceria passa attraverso una rigorosa selezione di materia prima di alta qualità. Diverso è il discorso delle intolleranze, la piaga del millennio. Sto studiando, è un argomento importante che va pensato, ma sono convinto che usando la testa e la tecnica si possano ottenere buoni risultati.
Ritorniamo alle materie prime…
Ci sono materie prime per cui le marche sono importanti, altre per cui lo sono meno, come per esempio lo zucchero. Poi ci sono materie prime di cui utilizzo, in base al prodotto che devo preparare, tipologie e marche diverse. Per la frolla scelgo una farina più tecnica e più raffinata, per il pane una più grezza, per il panettone una più tecnica e con un potere di assorbimento ponderato. Sul cioccolato non scendo a compromessi, perché la bontà di questo ingrediente la riconosce chiunque, anche senza essere uno specialista. Non utilizzo aromi concentrati, ma solo quelli naturali.
Segui una regola quando crei un dessert?
Gualtiero Marchesi diceva che il palato non è pronto a ricevere più di tre ingredienti alla volta. Anch’io ritengo che un piatto non debba avere troppi sapori, ma limitarsi a tre in pasticceria è veramente riduttivo. La regola che seguo quando invento un dessert è tenere presente il momento e il contesto in cui verrà consumato. Un dessert che viene assaporato alla fine di un menu degustazione, per esempio, deve avere caratteristiche connesse ai piatti consumati in precedenza. Il dolce del pasto generalmente deve essere più leggero, puntare più sull’acidità, meno sulla dolcezza e grassezza, deve essere una chiusura in bellezza e lasciare la bocca pulita. Per la merenda, invece, rimango sulle monoporzioni, più golose, dai sapori più avvolgenti e grassi.
Quindi per costruire la carta dei dessert ti interfacci con lo chef?
In genere Davide Castoldi, l’excutive chef, mi lascia carta bianca. Naturalmente i dessert devono dialogare con le proposte del menù, a parte qualche dolce evergreen.
Un esempio di evergreen?
Il tiramisù. Noi lo proponiamo montato al piatto, la base è un bisquit, poi c’è la crema e all’interno è nascosta una quenelle di gelato al caffè. Serviamo anche il predessert: la chiusura del pasto e la pulizia del palato. Deve essere un invito al dolce, un elemento intermedio generalmente acido, freddo, deve pulire la bocca e aprire palato e testa alla degustazione del dolce.
Ti occupi anche della colazione?
Preparo le torte, le mini tarte e i plumcake, il resto è seguito dalla cucina.
Due parole sulle attrezzature. Quanto sono importanti per un pasticcere?
Da 1 a 100, direi 1000! Mentre uno chef, anche se non ha tutto al top, si arrangia, un laboratorio ben attrezzato per un pasticcere è fondamentale, a cominciare dal forno e dall’impianto di aria condizionata.