Chi sta in cucina, chi sta nei laboratori di pasticceria o di panificazione non sta sui giornali o in tv. La sua immagine si contrappone a quella patinata, levigata, ritoccata a Photoshop. Chi sta in cucina o in laboratorio non è esteticamente perfetto, fatica, suda, vive tra i suoi collaboratori e affronta i problemi quotidiani. Lui sì è autentico. Il pericolo? Che dopo la chef belloccio e crudele nasca l’ossessione della ricerca dello chef “vero”. E così lo chef “vero” diventerà lui stesso finzione. L’immagine del cuoco costruito dai mass media per sopravvivere ha necessità che si contrapponga a quello reale, sono due gemelli incapaci di vivere l’uno senza l’altro. E’ chiaro che il partito dello chef “vero” nasce dal desiderio di opporsi alla casta degli chef televisivi, che hanno contribuito a far credere che la cucina sia un gioco. E’ un’immagine falsa. Il lavoro, se si lavora, è sempre fatica, ma la tv ci ha abituato, direi assuefatto, a pensare che tutto sia facile, che ciò che conta è il potere e il denaro. E invece no. Il lavoro è spesso fatica, collaborazione, rispetto dei colleghi e di chi acquista ciò che proponi. Chi lavora è potenzialmente felice, a patto di liberarsi dell’immagine di quel gemello che ti fa sentire in colpa se non sei perfetto. Forse dovremmo smettere di usare l’aggettivo “vero” per cercarne un altro che eviti di tenere in vita la finzione e per evitare la formazione di un altro cliché. Di Monica Viani
Come è finta la figura dello chef contemporaneo
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