Quando si entra in contatto per la prima volta con il mondo della ‘new wave’ della panificazione italiana, si resta sempre stupiti dalla portata culturale di questo fenomeno. Realtà come la Comunità Grano Alto o PAU, con il loro fermento fatto di incontri, scambi, crescita condivisa e tutto finalizzato alla creazione di un pane che torni a essere un prodotto agricolo, nel senso più profondo e genuino, entusiasmano e affascinano.
Molto bello, ma tutto questo non basta più. Sembra essere questo il messaggio emerso da molti degli interventi pronunciati durante la prima giornata di Forni e Fornai-e da chi questo comparto lo vive ogni giorno o lo ha studiato da molto vicino. La necessità di passare da isole felici, esempi virtuosi, a massa critica che può avere un reale peso politico è fortemente sentita e sviluppata in molteplici direzioni.
La ricerca, oltre la retorica
Molto interessanti, per esempio, l’intervento di Riccardo Bocci, direttore tecnico Rete Semi Rurali, che ha sottolineato l’esigenza di emanciparsi dalla definizione ‘grani antichi’, e da tutta la retorica che porta con sé questa definizione. L’obiettivo è quello di evidenziare il valore scientifico della ricerca in ambito di sementi portata avanti assieme a questa nuova generazione di agricoltori e panificatori agricoli, uscendo dalla logica di omologazione dell’agroindustria. “Oggi al centro del discorso c’è la ricerca – spiega Bocci –. I semi ‘antichi’ li abbiamo usati per una decina di anni, poi, assieme agli agricoltori, abbiamo iniziato a costruire nuove varietà: questa è la vera sfida di oggi”.
Una sfida che ha come parola d’ordine la diversità, la chiave da cui è necessario partire per ricostruire il sistema agricolo-alimentare ma anche il fattore che rende questo processo difficilissimo perché significa lavorare su esigenze eterogenee, su terreni e condizioni climatiche quanto mai variegati. “Ma deve essere questa la nostra forza, la nostra idea di innovazione – prosegue il direttore di Rete Semi Rurali –. Ad oggi l’estrema diversità che caratterizza il nostro movimento rappresenta ancora un limite, non ci permette di esprimere un pensiero collettivo e quindi di farci ascoltare dalla politica. L’agricoltura 4.0 sta già proponendo agli agricoltori le sue soluzioni al cambiamento climatico, e noi cosa offriamo loro? La narrazione secondo la quale bastiamo a noi stessi non è più sufficiente: è arrivato il momento di capire come tutto questo può diventare organizzazione e lavoro comune”.
Per i semi, azioni concrete
A ribadire la centralità dei semi e della ricerca in tal senso anche Salvatore Ceccarelli, ex professore di Genetica agraria all’Università di Perugia, e Stefania Grando, genetista e plant breeder che sottolineano come “mettere le mani sui semi significhi controllare l’intero processo produttivo. Per questo il nostro lavoro è improntato sul riportare, nelle abitudini dei contadini, i metodi che loro stessi hanno adottato per migliaia di anni: andare nel campo, in genere con i figli, in modo da trasmettere quella conoscenza alle generazioni future, e scegliere le piante più belle, dalle quali ottenere il seme per la cultura successiva. Perché oggi quelle stesse persone un tempo protagoniste, si vedono ridotte all’ultimo anello di un processo al quale non partecipano e del quale conoscono molto poco”. Per questo, proseguono i due genetisti, è necessario da una parte recuperare non solo abitudini dimenticate ma anche spazi, come quello per depositare i semi che oggi non esiste più, e avvicinarsi gli uni agli altri, stringere collaborazioni tra agricoltori e panificatori agricoli, perché una ricerca sul seme che non sia fatta dall’alto, e dunque imposta, è necessariamente un lavoro di squadra. “Oggi esistono tante realtà che operano in questo modo, tanti esempi – la Comunità Grani Alti, ma anche Madre Project per citare due realtà che operano in questo ambito – e che però restano tali, isole felici, non c’è un sistema. Quello di cui ci abbiamo bisogno è mettere in connessione tutte queste esperienze, queste competenze, in modo da diventare massa critica e far ascoltare la propria voce”, conclude Stefania Grando.
È tempo di fare i conti
Dunque, una comunicazione diversa che valorizzi la portata innovativa della ricerca in atto, la necessità di cooperazioni sempre più strette e diffuse e, ultimo passo necessario alla creazione di una vera comunità che voglia avere un reale peso sociale e politico, la necessità di contarsi. “Contare le aziende, gli ettari di terreno lavorati, i quintali prodotti – spiega Laura Filios, giornalista e autrice con Luca Martinelli del volume Pane Buono – e non per adeguarsi a una logica di mercato ma per far capire all’opinione pubblica e a istituzioni che parlano solo la lingua dei numeri, il peso reale di questo fenomeno. Due anni fa, lavorando al libro, parlavo di rivoluzione, intesa come rivoluzione culturale, perché attraverso un alimento primario si stava trasformando la consapevolezza del consumatore. Oggi sono qui a parlare del potere che quell’alimento primario ha, potrebbe avere e avrà, se effettivamente riusciamo a creare una collettività”. Quello che dovrebbe emergere è un modello nuovo, fedele ai principi che animano questo movimento. “Qui si parla di comunità e non di filiera, perché quello di filiera chiaramente è un concetto che racchiude dentro di sé qualcosa legato all’ottimizzazione rispetto al profitto. Fare il pane è un attimo di comunità, è alimentare le persone che ci sono vicino, non solo in termini di cibo ma anche di consapevolezza. È tempo di passare da una consapevolezza esclusivamente culturale, a una consapevolezza politica”, conclude Filios.