Lo scorso settembre è suonata la prima campanella per Madre Project, Scuola del Pane e dei Luoghi nata dalla collaborazione tra Davide Longoni e la non profit Terzo Paesaggio. Master dall’approccio innovativo rivolto ad aspiranti panificatori, Madre Project è solo una tra le più recenti tappe del cammino intrapreso da Davide a partire dal 2003 quando, alla soglia dei 30 anni, dopo aver percorso strade diverse, fa ritorno al panificio di famiglia. “Avevo preso le distanze dal lavoro di mio padre perché gli anni ’90 sono stati un momento critico per la panificazione artigianale, e lui stesso mi aveva consigliato di indirizzarmi altrove. Così mi sono laureato in Geografia Umana, una scelta importante perché acquisire strumenti culturali aiuta sempre a fare scelte consapevoli. Nel tempo ho capito di voler avere piena responsabilità di ogni mia scelta nel lavoro, e a 30 anni ho maturato la consapevolezza che solo il lavoro artigianale ti dà davvero questa possibilità”. Davide Longoni si racconta così a Dolcesalato: di seguito, un estratto dell’intervista dall’ultimo numero della rivista.
D: Quali sono stati i tuoi primi passi?
R: All’inizio non c’era un disegno imprenditoriale preciso, ma solo la volontà di lasciare il mio pensiero in un prodotto. Ho cominciato nel laboratorio di famiglia a selezionare materie prime diverse, rintracciando quei produttori che continuavano a mantenere vive le filiere, come Molini Del Ponte in Sicilia e Sobrino in Piemonte. L’altra intuizione è stata reintrodurre la pasta madre, che nel pane non si usava più da anni.
Nel 2013, insieme alla mia compagna Tatiana, oggi General Manager dell’azienda, abbiamo aperto il primo punto vendita a Milano in via Tiraboschi. A definirlo, la scelta di tenere per lo più pane di grosse pezzature, per raggiungere il perfetto equilibrio tra crosta e mollica, ma anche il modo di esporlo, ovvero il Muro del Pane che permette di raccontare il prodotto in maniera inedita rispetto ai classici cesti. Oggi tutti i nostri negozi hanno questa parete con i pioli che consente di esporre i pani in verticale.
D: La tua attività si è trasformata presto in una fucina di talenti…
R: Sono tanti i giovani che sono passati da noi acquisendo un modello, che hanno poi interpretato aprendo il loro panificio. Oggi vedo questa nouvelle vague di panificatori come con-correnti, non competitor ma realtà che corrono insieme.
D: Come si è evoluta l’attività?
R: Con l’apertura del laboratorio di via Tertulliano, all’interno di uno spazio industriale dagli ampi margini di manovra. Avere un laboratorio staccato dal negozio ci ha permesso di immaginare una produzione per una distribuzione nostra. Nel giro di poco tempo il laboratorio si è ampliato da 100 a 300 mq, arrivando agli odierni 600 mq più gli uffici, e all’apertura di un negozio all’anno, sette in totale. Sono socio unico, e al momento siamo nel pieno del passaggio a una gestione aziendale strutturata: ormai siamo in 60, è necessario un cambio organizzativo.
Nel 2014 abbiamo inserito un contabile nell’organico, seguito dall’ingresso di una serie di funzioni di staff, come l’ufficio comunicazione, che lavora molto sulla brand identity, assicurandosi che venga condivisa in maniera forte all’interno per essere coerenti con quello che raccontiamo all’esterno. Fondamentale è stata l’introduzione di un software gestionale che raccoglie gli ordini da tutti i nostri negozi e dai clienti b2b, elaborandoli in fogli di produzione e consentendoci così di tagliare gli sprechi. Si tratta di un software costato 100mila euro, finanziato ed elaborato con la collaborazione di una serie di colleghi e quindi condiviso con loro.
D: Si tratta dei con-correnti di cui parlavi?
R: Sì. Con parte dei ragazzi cresciuti con me negli anni – Forno Brisa, Pandrefrà, il Mercato del Pane di Pescara, Mamm di Udine e il Panificio Moderno di Trento – ci siamo riuniti nei Breaders, fratelli di pane, un gruppo di amici e colleghi cresciuti negli anni beneficiando di un modello aperto di scambio di informazioni di prodotto, filiera e gestione: un modello che cambia il paradigma di un mondo chiuso dove sembrava necessario tenere tutto segreto. Noi abbiamo aperto e abbiamo accelerato la crescita, ottenendo un vantaggio competitivo enorme.
D: Cosa pensi della questione dipendenti?
R: Credo che le aziende abbiano bisogno di tre cose: capitale, clienti e lavoratori. La più importante, e anche la più complessa, sono proprio i lavoratori. È necessario sapere come attrarli, ma ancora prima come cercarli. Noi lo facciamo attraverso i social, perché così ci rivolgiamo a persone che ci conoscono e hanno affinità con l’azienda. Oggi lavoriamo su cinque giorni, anche se vorrei arrivare a quattro, e il nostro stipendio è mediamente più alto di quello base del 20%. Un’idea folle, che spero di riuscire a mettere in atto, è che gli stipendi li decidano i lavoratori stessi: è un modello che esiste già, se fossimo bravi ad avere più margini potremmo metterlo in pratica. Puntiamo molto sulla formazione, con un modello di responsabilità diffusa non verticistico. Io credo che il senso di responsabilità sia la cosa principale che bisogna essere in grado di tirare fuori dai propri collaboratori. Ogni settimana un leadership team si riunisce per prendere decisioni durante incontri ai quali né io né Tatiana partecipiamo, perché per noi è essenziale che l’azienda si guidi da sola.
D: Il tema della sostenibilità nella filiera agricola per te è centrale: cosa non funziona?
R: La politica dei prezzi. La nostra responsabilità come panificatori è quella di garantire la giusta retribuzione a ogni elemento della filiera. Quando abbiamo iniziato siamo un po’ usciti dal mercato perché il prezzo del grano solitamente viene prodotto dai trader del commercio internazionale, mentre per noi lo hanno sempre stabilito gli agricoltori. Negli anni però ho selezionato fornitori che ormai sono partner, dei quali condividiamo le problematiche, lavorando anche direttamente dei terreni a Chiaravalle e in Abruzzo. Ovviamente quando possibile cerchiamo di assorbire i costi aggiuntivi, ma a volte è necessario aumentare anche i nostri prezzi e il nostro compito è anche quello di spiegarne il motivo ai clienti.
D: Cosa sogna per il futuro Davide Longoni?
R: Vorrei vedere la nostra azienda autonoma e non essere più necessario: credo che questo significhi avercela fatta. Nell’arte bianca in generale vorrei che questo movimento fosse sempre più reticolare, e che tutto il food italiano fosse sempre più connesso e basato su modelli produttivi che rispecchiano la nostra visione del mondo.
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