Il caso di cronaca è tragico e ormai noto: a Milano, una giovane gravemente allergica al latte sceglie una catena vegana di ristorazione dove teoricamente non dovrebbe avere alcun problema relativo alla propria patologia; ordina un dolce dichiarato vegano e prodotto da un’azienda esterna – dalla quale la catena si rifornisce – e, al secondo cucchiaino, si sente male. Corre in bagno, prova a vomitare, prende il farmaco per l’asma e il cortisone che ha con sé, ma poco dopo sviene. Arriva l’ambulanza, scatta il ricovero in ospedale e dopo qualche giorno avviene il decesso. Le successive analisi evidenziano tracce di latte nel dolce, un tiramisù, e dall’ispezione nel laboratorio di pasticceria emerge che le due linee di produzione, quella vegana e quella con l’utilizzo di latte, avvengono sullo stesso bancone. Di conseguenza, il prodotto dichiarato vegano avrebbe dovuto indicare, in etichetta, la potenziale presenza dell’allergene, ma così non è stato.
Si tratta di un caso limite, il peggiore che si potesse immaginare, e da questa tragedia è necessario imparare qualcosa per fare in modo che non si ripeta nulla di simile. In sostanza, ogni ristorante dovrà essere attrezzato per offrire precise garanzie ai clienti che hanno allergie, intolleranze o semplicemente che non vogliono un determinato ingrediente e lo precisano al momento dell’ordine. Anche se, per il cliente, resta sostanzialmente impossibile avere la garanzia assoluta che la sua richiesta venga esaudita. Una conferma indiretta di questo fatto l’abbiamo individuata nella reticenza di diversi operatori nell’offrire una risposta su come ci si possa tutelare al 100% nei processi produttivi e nei confronti del cliente.
Gli schemi volontari dell’alimentare
Una garanzia importante arriva dalle certificazioni. Esistono gli schemi di certificazione volontari per il settore alimentare e sono rivolti alle imprese che vogliono valorizzare il loro prodotto per una sua caratteristica specifica di lavorazione o di ingredienti, e sono attente ai temi della sostenibilità ambientale ed etica del prodotto. Icea, ad esempio, nell’ambito della ristorazione ha sviluppato il certificato di Ristorazione Biologica, che garantisce l’impiego di ingredienti biologici e il rispetto di requisiti di sostenibilità ambientale e sociale, e quello di Ristorazione Senza Glutine, che garantisce che i prodotti realizzati e le preparazioni gastronomiche somministrate non presentino tracce e/o contaminazioni di glutine. Inoltre, a monte della ristorazione, esistono i certificati Vegan, Vegetariano, Bio Vegan e Bio Vegetariano. Per quanto riguarda invece gli allergeni, esiste l’obbligo di legge (D. Lgs. 231/2017) che recepisce il regolamento Ue 1169/2011 e prevede, con tanto di sanzioni in caso di mancata applicazione, l’obbligo di indicare in etichetta in maniera chiara gli ingredienti che possono provocare allergie. Tale obbligo vale anche per i cibi non preconfezionati preparati all’interno di attività quali mense e ristoranti. Tuttavia, se qualcosa non dovesse essere stato fatto correttamente durante tutta la filiera che va dalla trasformazione al piatto servito, è evidente che al cliente non può essere assicurato il rispetto della sua volontà o necessità di non imbattersi in un ingrediente sgradito o pericoloso per la sua salute.
I ristoranti non possono effettuare le analisi
Questa difficoltà o sostanziale impossibilità viene evidenziata con trasparenza da Andrea Pignata, General manager di Mediterranea, startup dell’healthy food con un locale già aperto a Milano in City Life e un secondo in via di inaugurazione sempre nel capoluogo lombardo. “La vera tutela per una società di ristorazione – afferma Pignata – è scegliere i fornitori più qualificati tra quelli presenti nel mercato e chiedere tutta la documentazione di supporto. Ma se parliamo della tragedia avvenuta a Milano, la diligenza e la scrupolosità di un ristorante non sarebbe bastata, perché quel tiramisù era dichiarato vegano dalla stessa azienda produttrice e invece non lo era. E quando in etichetta viene dichiarato il falso, lo stesso ristoratore diventa parte lesa. In ogni caso, un locale non può permettersi di effettuare analisi scientifiche sui prodotti che entrano nelle sue cucine. Qualora il cliente evidenziasse una grave allergia verso un determinato ingrediente specifichiamo che non siamo in grado di garantire rispetto a eventuali contaminazioni incrociate, che rappresentano un rischio reale per ogni locale. In una cucina troviamo coltelli, taglieri, contenitori e tante altre attrezzature che non è immaginabile sanificare a ogni passaggio. Purtroppo, le pratiche commerciali sono difficilmente compatibili con il massimo livello di sicurezza”.
Pignata, con onestà, afferma che: “Se io avessi un figlio altamente allergico, non mi sentirei tranquillo a mandarlo in un locale solo perchè si dichiara vegano”. Tornando alle garanzie, Mediterranea applica procedure di food safety da manuale e richiede le certificazioni che poi dovranno essere presentate al cliente qualora le dovesse richiedere. Inoltre, ha una persona formata e preposta al primo soccorso in caso di emergenza ai tavoli. “Questo evento tragico ribadisce l’importanza delle questioni di cui stiamo parlando. Sui casi di allergia non si può scherzare. Ma a nostra volta, non possiamo chiedere al cliente se è allergico, deve essere lui stesso a segnalare la propria eventuale allergia e nel menu esiste una chiara rappresentazione degli allergeni”, conclude Pignata.
Il kit salvavita? Diventi obbligatorio
Il moltiplicarsi di allergie e intolleranze, per chi opera nella ristorazione, costituisce un fattore critico nella gestione del locale, peraltro aggravato dal fatto che molti clienti dichiarano come allergia la semplice presenza di ingredienti sgraditi. Tuttavia, la questione deve essere presa sul serio e un locale, prima dichiararsi ‘free from‘, deve essere in grado di provare ciò che dichiara.
“Non è raro trovare ristoratori di cucina vegana che inviano menu con piatti dichiarati gluten free, quando in realtà non dispongono di cucine dedicate e quindi di ambienti protetti – afferma Simone De Maria, Co-founder di Vegery, auspicando che si arrivi a un obbligo di legge -. Ogni locale dovrebbe disporre di un kit salvavita per gestire un caso di shock anafilattico”.
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