Come gestire il personale durante l’emergenza dovuta all’impatto di Covid-19 sulle aziende
Articolo a cura degli avvocati Luca Daffra e Marco Marzano
Il Decreto Chiudi Italia e le sue misure impattano tutte le imprese. È in atto un tourbillon legislativo che durerà ancora a lungo, è quindi importante mantenere alcuni punti fermi, specialmente per quanto riguarda la gestione del personale.
Nel momento in cui scriviamo, è da edito in Gazzetta Ufficiale il DPCM del 22 marzo 2020 con cui sono diventate legge dello Stato, a distanza di quasi 24 ore dall’annuncio, le ulteriori misure di sicurezza disposte dal Presidente del Consiglio. Il Decreto Chiudi Italia e le sue misure impattano tutte le imprese, prescrivendo in molti casi la chiusura tout court dell’azienda, in altri la sospensione di determinati reparti e, anche per le attività cd. essenziali, l’applicazione di rigidi protocolli sanitari volti ad arginare le possibilità di contagio.
Anzitutto, viene in rilievo il “lavoro agile” ex l. 81/2017 nella sua versione semplificata dal DPCM del 1° marzo 2020, al quale i datori di lavoro dovranno ricorrere – anche senza l’accordo individuale e facendo riferimento alla documentazione presente sul sito dell’INAIL per l’informativa sulla sicurezza dei lavoratori – in tutti i casi in cui la prestazione lavorativa può essere resa da remoto e con strumenti informatici. Sul punto, tuttavia, occorrono un paio di considerazioni: primo, si tratta di uno smartworking sui generis, in quanto l’attività non potrà che esser resa dal domicilio del lavoratore (avvicinandosi così alla fattispecie del telelavoro), altrimenti – ossia postulando la mobilità del dipendente – verrebbe inevitabilmente frustrata la ratio della legislazione d’urgenza, e cioè la necessità di ridurre gli spostamenti e le interazioni sociali; secondo, l’attività full time in lavoro agile dev’essere retribuita normalmente e, pertanto, è incompatibile con la percezione di trattamenti di integrazione del reddito.
Per le prestazioni che non possono essere utilmente rese da remoto e per i business sospesi per decreto ministeriale (tutti salvo quelli essenziali e altre poche eccezioni, quali quelle nel settore alimentare), si possono aprire le porte degli ammortizzatori sociali. Questi sono stati estesi dal d.l. 18/2020 (il decreto «Salva Italia») a tutte le imprese, le quali possono, in forza della causale «emergenza COVID-19» e delle procedure semplificate, ottenere in favore dei dipendenti già in forza al 23 febbraio il trattamento di integrazione per una durata complessivamente pari – in questo momento – a nove settimane. Semplificando ai minimi termini, le opzioni sono due: le aziende che rientrano nel campo della CIGO, dei FSBA e del FIS, possono richiedere alle predette cassa l’accesso al trattamento di integrazione potendo fare affidamento su una procedura più snella (la fase di informazione e consultazione sindacale è ridotta a 3 giorni, senza necessità di accordo); per le micro imprese e per i datori di lavoro esclusi dai predetti strumenti, invece, è stata attivata la Cassa Integrazione in Deroga il cui accesso è subordinato – per chi occupa più di 5 dipendenti – alla stipula anche in via telematica di un accordo sindacale.
Anche in connessione con l’accesso agli ammortizzatori sociali, resta la questione delle ferie, trattata in maniera ondivaga dalla normativa emergenziale: e, difatti, se i primi provvedimenti demandavano al datore di lavoro il compito di incentivare la fruizione di congedi e ferie, il protocollo Stato-OO.SS. del 14 marzo ha invitato a utilizzare prima le integrazioni salariali e solo dopo le ferie. Tra il tutto e il niente, la tesi più “ragionevole” porta a ritenere che il datore di lavoro possa disporre il godimento delle sole ferie maturate in anni precedenti al 2020, per le quali non operano le tutele del d.lgs. 66/2003; ai fini dell’accesso alle Casse, invece, manca al momento una qualsiasi indicazione dell’INPS, non contenuta neppure nel più recente mess. INPS 1287/2020.