Il canadese François Chartier, sommelier e “creatore di fragranze”, per la prima volta in Italia, è stato ospite della Chocolate Academy di Milano, dove ha presentato lo studio sul cioccolato e il suo percorso di ricerca
Ci sono esperienze, sensazioni, emozioni che molte volte fanno sospettare che 1+1 non sia necessariamente uguale a 2. E poi c’è chi nel settore del food and wine afferma che, scientificamente parlando, 1+1 è uguale a 3. A spiegarlo è nientemeno che François Chartier, canadese e vincitore nel 1994 del titolo di Miglior Sommelier del Mondo, anche se ciò che l’ha portato a essere uno dei maggiori esperti del pairing, è la sua ricerca, ormai lunga più di 20 anni, nel mondo degli aromi e delle molecole del cibo. Il risultato è la rivoluzionaria teoria degli abbinamenti aromatici, un’analisi scientifica sulla struttura molecolare dei singoli alimenti, per cui la combinazione di ingredienti che condividono una o più molecole aromatiche dominanti dà origine a una sinergia potentissima, in cui il risultato è maggiore della semplice somma delle parti.
Da qui la convinzione che sì, effettivamente, 1+1 può essere uguale 3. E per spiegarlo per la prima volta in Italia, Chartier ha scelto il Chocolate Academy Center di Milano, dove il 15 ottobre ha guidato professionisti ed esperti del settore in un percorso sensoriale ma allo stesso tempo dotato di solide basi scientifiche, alla scoperta di come e perché nascono gli abbinamenti perfetti. Il focus, in particolare, è stato sul cioccolato, con una selezione di blend e monorigine di Cacao Barry: Madirofolo, Tanzania, Ocoa, Ghana, e Dadadark il cioccolato della linea OrNoir, creata da Enrico e Roberto Cerea del ristorante tristellato “Da Vittorio” con la consulenza di Davide Comaschi, direttore dell’Academy.
Proprio Enrico Cerea si è occupato del “repas aromatique” insieme a Chartier, proponendo un menù dolce e salato che seguisse le famiglie aromatiche degli alimenti, in grado di creare l’equilibrio perfetto. Un obiettivo, quello del giusto bilanciamento, che Barry persegue nell’ambito del cioccolato anche grazie all’applicazione della Q Fermentation, un particolare metodo in cui i lieviti vengono inseriti in fase di fermentazione così
da rendere le qualità del cioccolato più costanti e quindi più gradevoli al gusto. Ed è proprio la ricerca delle perfette armonie che ha portato Chartier a collaborare con Barry e a proporre questo format che ha toccato città come Londra, Tokyo e ora Milano, spiega l’esperto canadese: «C’è cioccolato e cioccolato. Se prendiamo un cioccolato fondente generico lo possiamo abbinare facilmente, ma Cacao Barry propone tante diverse tipologie e tutte hanno il loro proprio particolare gusto, la loro propria particolare molecola. È un po’ come quando si parla di vino. C’è il vino rosso e poi ci sono il Barolo, il Nebbiolo, il Cabernet Sauvignon e ognuno di loro ha diverse sfumature, che generano più complessità, più possibilità. Ed è questo che io sto cercando: nuove possibilità di creare».
Ha viaggiato in diversi continenti, è entrato in contatto con diverse culture per spiegare e proporre la sua teoria. Quali sono le differenze più significative che ha riscontrato nella cultura del cibo?
Al di là della proposta culinaria di per sé, è la mentalità che fa la differenza. Negli ultimi 15 anni, la cultura del cibo è evoluta davvero in fretta, in tutto il mondo, ma in modo diverso. Il Nord-America è sempre stato più aperto agli influssi esterni, non avendo una tradizione culinaria sviluppata come l’Europa, che si è mantenuta sempre un po’ più “chiusa” fino agli ultimi 7-8 anni, in cui sta progredendo velocemente verso la sperimentazione di nuove commistioni. Il primo vero innovatore in questo senso è stato ed è secondo me Ferran Adrià (chef del ristorante spagnolo elBulli, per cinque volte vincitore del The World’s 50 Best Restaurants, ndr). E poi c’è l’Asia. Recentemente sono stato in Cina, dove la cultura del cibo è vasta e variegata, ma allo stesso tempo più chiusa. Per ora è l’unico posto dove mi sono reso conto che chi mi trovavo davanti non stava cercando di imparare altro, ma di imparare quello che già sapeva.
Da quando ha iniziato a pensare che la scienza e gli aromi possano influenzare la nostra concezione di cibo?
Oggi ho 54 anni, per cui mi verrebbe da rispondere… 54 anni. Scherzi a parte, qualche anno fa ho letto un’intervista di Picasso in cui gli veniva chiesto quanto tempo ci aveva messo a dipingere un certo quadro e la sua risposta era stata proprio questa… ho 26 anni e quindi direi che ci sto lavorando da 26 anni. Posso dire che fin da bambino ero affascinato dal mondo degli aromi e da 35 anni sono impegnato nel settore. Dalla metà degli anni ’90 ho iniziato a pensare che per essere un migliore sommelier avrei dovuto saperne di più sul cibo. Anche grazie a diverse letture di professionisti e scienziati che si occupavano dell’argomento, ho cominciato a guardare alla scienza e ho capito che per essere un migliore sommelier e un miglior cuoco quello era il settore che dovevo approfondire. E da lì è nato tutto, in una costante ricerca di sviluppo delle possibilità e della creatività che ne deriva.
E ora? Qual è il prossimo passo?
L’aroma è ovunque. È nello shampoo, nel profumo, in quello che si beve e in quello che si mangia. Ormai ho capito da un paio di anni che la mia passione non è il vino, non è il cibo ma è questo: l’aroma. Quando ho iniziato questo progetto di comprendere l’alimentazione tramite la scienza, ho letto un sacco di libri sul profumo, che parlano proprio delle molecole come materia primaria. E lì ho pensato, un giorno creerò un profumo. Ora sta succedendo proprio questo: andrò a creare delle fragranze. In Giappone sto sviluppando un’ampia e importante serie di collaborazioni, che mi porterà anche a elaborare il mio sakè insieme alla Tanaka Sake Brewery Kikkogura. È molto raro che a uno straniero venga data questa opportunità e ne sono davvero grato. Non vedo l’ora di iniziare questo nuovo capitolo.