Le aziende leader della produzione di burro ci hanno spiegato cause, conseguenze, reazioni e previsioni riguardo al rincaro del 113% che il prezzo del grasso animale ha subito nel corso del 2017
I dati della Coldiretti parlano chiaro: da un’ analisi delle quotazioni della Borsa di Milano si è registrato un picco di 5,04 euro al chilo per il burro pastorizzato nazionale, il prezzo più alto degli ultimi cinque anni. Complici l’aumento della domanda da parte dei mercati esteri, il riconoscimento delle proprietà salutari del grasso vaccino e la moda di abbandonare l’olio di palma da parte dei grandi gruppi aziendali. Abbiamo dunque chiesto alle aziende leader di settore nella produzione del burro quale sia il loro punto di vista sulla situazione e come stiano provando ad arginare la crisi.
Le cause dell’impennata
Svariati sono i motivi che hanno portato a questo punto: tanto per cominciare dal 2005 ad oggi il numero delle stalle presenti sul territorio italiano si è dimezzato passando da 60mila a 30mila per via del crollo del prezzo pagato agli allevatori, che quasi era inferiore a quello del mangime per il bestiame. Inoltre sembra che il fenomeno del “senza olio di palma”, abbia spinto molti gruppi industriali a sostituire proprio con il burro il grasso vegetale. L’aumento della domanda unito alla diminuzione dell’offerta ha portato alla situazione attuale, ma ci sono altre cause, forse più determinanti, che hanno stabilito l’impennata. Secondo Luca Celli, Responsabile vendite & Coord.re Marketing di Senna, tale incremento è dovuto soprattutto ad un effettivo maggior consumo di burro a livello italiano e mondiale, con l’avvento di nuovi mercati asiatici, ed a una buona dose di speculazione. Ermanno Ferlazzo, Consulente Commerciale di Corman, spiega che “il boom dell’aumento del prezzo, iniziato già dai primi mesi del 2017, non è un fenomeno solo italiano ma che ha coinvolto un po’ tutti i paesi a livello internazionale, molto sentito anche in Nord America e Asia dove i consumi di burro sono in forte crescita. Il fenomeno è legato prima di tutto alla maggiore richiesta di burro a livello internazionale, da parte di paesi come Cina e India. D’altro canto c’è stato anche il fenomeno della “riabilitazione” della materia grassa e della riscoperta di proprietà quali naturalezza e qualità. Stiamo infatti parlando di un prodotto naturale, senza conservanti, senza grassi idrogenati e ricco di vitamine. Dall’altra parte si è registrata una diminuzione della produzione di latte. Solo nei primi 5 mesi del 2017 i maggiori paesi produttori, come Germania, Francia e Nuova Zelanda, hanno registrato un calo importante. Inoltre la marginalità dei produttori di burro è molto bassa ed è sicuramente più redditizio produrre formaggi.”
“È assolutamente corretta l’analisi sulla sostituzione dell’olio di palma e sulla rivalutazione delle proprietà salutistiche del burro”, aggiunge la Dott.ssa Gabriella Bollino, responsabile BU industria & export di IN.AL.PI “ma va unita ad un calo dei volumi di latte vaccino prodotto, conseguenza dei prezzi molto bassi registrati nel 2015 e per la prima parte del 2016”.
Alessandro Belloli, Marketing & Trade Marketing Manager Foodservice Italia per Debic, aggiunge infine che “nella prima parte dell’anno si è avuta una mancanza di prodotto a livello europeo che ha portato ad una serie di rincari a causa di manovre europee volte al contenimento delle produzione e all’abbattimento di un considerevole numero di capi.”
La reazione delle aziende
Certo è dunque che le aziende hanno dovuto “attutire il colpo”, trovando una mediazione tra il prezzo della materia prima e la capacità d’acquisto del cliente. Debic, essendo parte della cooperativa FrieslandCampina, composta da 19.054 allevatori che producono 9.453 milioni di kg di latte l’anno, ha la fortuna di gestire l’intera filiera della produzione, fino alla vendita. Con una domanda in crescita esponenziale, l’azienda è comunque riuscita a soddisfarla, sia attingendo dalle riserve di prodotto stoccato, disponibile in casa, sia raffinando ancora di più la produzione per garantire la presenza costante di burro e soddisfare il cliente.
Corman invece, non producendo latte e dovendo acquistare la materia prima al prezzo di mercato, ha semplicemente adeguato i prezzi all’aumento del costo del latte. Secondo Ermanno Ferlazzo è però necessario sottolineare che l’aumento del costo del burro ha una minima incidenza sul singolo prodotto finito e che gli artigiani soliti a lavorare con prodotti di qualità difficilmente tornano indietro, avendo abituato la clientela a prodotti di pasticceria di un certo livello.
Da parte di IN.AL.PI continua il percorso di filiera con il prezzo indicizzato, l’unico sistema in grado di contenerne la volatilità e garantire la sopravvivenza della filiera alpina-piemontese creata in questi anni con i conferenti latte e i clienti.
Senna poi, è riuscita a far fronte alla crisi grazie all’ampia gamma di prodotti a disposizione, sia di burro che di margarine senza olio di palma, in grado di soddisfare qualsiasi esigenza del mercato. Ovvio è che tali prezzi del burro hanno contratto i consumi nell’artigianato in questi ultimi mesi.
Le ripercussioni sugli artigiani
Il mercato artigianale italiano è cresciuto molto negli ultimi anni arrivando in molti casi all’eccellenza, dunque l’impennata del prezzo del burro, sicuramente penalizza la produzione. Ma le indagini di mercato svolte sia da Corman che da Debic segnalano che, in realtà, i recenti incrementi della materia prima portano ad un’incidenza di soli 2/3 centesimi al pezzo sul costo del singolo croissant e di 40 centesimi per un dolce natalizio.
“Alla luce della situazione, sarebbe più che legittimo per l’artigiano vendere un croissant a qualche centesimo in più. – puntualizza Ermanno Ferlazzo – Sicuramente alcuni artigiani hanno deciso di ovviare al problema scegliendo altre tipologie di materia grassa, ma in generale non abbiamo registrato particolari segnali di contrazione della domanda. In realtà per coprire l’aumento del costo di produzione è sufficiente applicare un minimo aumento al costo del prodotto finito, impercettibile al consumatore.”
“Ci rendiamo conto – dichiara Alessandro Belloli di Debic – che la situazione è stata ed è ancora particolare e che sul mercato ci sono prodotti sostitutivi con un posizionamento differente per qualità, modalità di lavorazione e prezzo, ma è fondamentale sottolineare che queste differenze possono mettere in discussione la qualità delle preparazioni. E, se la qualità diminuisce, il rischio di scontentare il consumatore finale aumenta. A nostro parere, soprattutto in questa fase, l’operatore deve puntare sull’eccellenza della materia prima, sulla professionalità e sull’amore nei confronti dell’arte pasticceria. Tutto questo per differenziare la propria offerta rispetto a chi sceglie di abbassare la qualità proposta.”
La Dott.ssa Bollino di IN.AL.PI invece afferma che anche in questo senso gli accordi di filiera sono una soluzione efficace, poiché consentono di fissare i volumi di approvvigionamento degli artigiani, garantendo livelli qualitativi alti e assicurati nei diversi periodi.
Di Marianna Zarini