Lo scorso 24 giugno, in occasione della prima edizione del convegno che si proponeva di indagare “l’altra faccia del food”, Valerio M. Visintin ha moderato un incontro dedicato a alla professione del critico gastronomico oggi tanto ambita, ma dai contorni spesso poco definiti. Scopriamo insieme le risposte alle domande più frequenti emerse dal dibattito
“La critica gastronomica, in Italia, non esiste”. Lapidario e caustico come suo solito, ha aperto così l’incontro dedicato allo “stato dell’arte” di questo mestiere Valerio M. Visintin, che del Corriere della Sera è, per l’appunto, il critico gastronomico. Il contesto era quello del Mare Culturale Urbano di Milano, che ha ospitato la giornata di incontri e dibattiti che va sotto il nome di Doof – L’altra faccia del food, iniziativa ideata dallo stesso Visintin. Protagonisti del confronto: Sara Bonamini del Gambero Rosso, Stefano Caffarri de Il Cucchiaio d’Argento e Luca Iaccarino de La Repubblica.
Critico per passione o per professione? Il quesito che apre la discussione ci porta dritti al cuore del problema. Oggi chiunque, dall’avvocato al medico al liceale, porta avanti – in modo più o meno concreto – il sogno di “scrivere di cucina”, ma ancora di più: anche nelle migliori testate, quasi per tradizione, a occuparsi di gastronomia sono spesso giornalisti che vengono dai settori più disparati. Spazio alla passione dunque, in un approccio che però mostra tutta la sua debolezza se paragonato ad esempio a quello che comunemente si adotta nei confronti della critica enologica: a parlare di vini sono chiamate solo personalità dall’autorevolezza conclamata. Forse qualcosa però sta cambiando, un esempio è quello del Gambero Rosso che richiede ai suoi collaboratori una formazione specifica, una competenza in ambito gastronomico da sviluppare anche attraverso master e quindi il praticantato all’interno della redazione.
Se di professione si deve parlare, però, dovrebbe essere previsto anche un giusto compenso, o per meglio dire un compenso adeguato a garantire al critico libertà di opinione. Un risultato difficile da ottenere, che si parli di editoria tradizionale o web. E questo implica che anche il professionista si trovi costretto a svolgere lavori paralleli, nella comunicazione o come consulente ad esempio, spesso in ambiti quantomeno affini a quello gastronomico, creando rapporti di lavoro e amicizie che possono metterlo in una posizione difficile nel momento di esprimere un giudizio. Da qui la battuta iniziale: se non c’è la possibilità di essere indipendenti nei giudizi, la critica gastronomica non esiste.
Cucina stellata o trattoria? Entrambe. Il problema è trovare qualcuno che si voglia occupare di trattorie! L’aspirante critico, e non solo lui, punta all’alta ristorazione perché dà prestigio e perché una foto con lo chef sembra ormai fare curriculum. È nella trattoria però che si mettono le basi della professione: se non si conoscono i piatti della tradizione, come si può capire e valutare una cucina stellata? D’altra parte non si può non conoscere l’alta cucina, per riconoscere ad esempio un’ispirazione o una tendenza anche nei menu dei locali meno blasonati. Un esempio su tutti: se si grida al miracolo per il tortino cuore caldo proposto dalla pizzeria sotto casa senza conoscere Michel Bras, c’è un problema. E a questo scopo male non fa pensare, nel proprio percorso di formazione, a un’esperienza diretta in una cucina, ma anche in sala.
E poi c’è la questione dell’anonimato, tema decisamente caro a Visintin. Anonimato che non viene quasi mai rispettato, se non dagli ispettori della Guida Michelin, come racconta lo stesso critico mascherato: “sono circa 80, per 12 Paesi. Solitamente fanno due pasti al giorno, e devono assaggiare più portate possibile. Oltretutto devono muoversi tra ristoranti che si trovano in nazioni diverse, quindi quando non mangiano viaggiano. Alla fine dell’anno li ricovereranno tutti, e via altri 80 critici… Deve essere così che hanno risolto il problema dell’anonimato!”.