Dalla dichiarazione nutrizionale all’informazione sugli allergeni. Quali sono gli obblighi da scrivere in etichetta per artigiani, ristoratori e pubblici esercizi?
Con l’aiuto di alcuni esperti abbiamo tracciato una panoramica degli adempimenti a carico di artigiani e pubblici esercenti in tema di informazione al consumatore. Piero Nuciari, agente scelto di Polizia Municipale presso il comune di Monte Urano (FM) ed esperto di controlli commerciali e igienico annonari ci ha spiegato che i prodotti posti in vendita, confezionati all’interno dell’attività commerciale o venduti sfusi, devono avere indicata la denominazione, il prezzo per unità di misura, gli ingredienti per ordine decrescente, la percentuale dell’eventuale ingrediente che caratterizza la denominazione del prodotto e – soprattutto – gli eventuali allergeni.
«Per i prodotti della gelateria, della pasticceria, della panetteria e della gastronomia, ivi comprese le preparazioni alimentari – prosegue Nuciari – l’elenco degli ingredienti può essere per singoli prodotti, su apposito registro o altro sistema equivalente da tenere bene in vista, a disposizione dell’acquirente, in prossimità dei banchi di esposizione dei prodotti stessi». A oggi, la norma del 92 è ancora il testo di riferimento in materia di etichettatura di alimenti sfusi, eccezion fatta per gli obblighi in materia di allergeni, per i quali si deve fare riferimento al più recente Regolamento UE 1169/2011 (Art. 44, comma 1, lettera a).
«Il vecchio cartello unico previsto dal decreto del 92 – precisa tuttavia Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare internazionale e giornalista, fondatore fondatore di GIFT (Great Italian Food Trade) e FARE (Food and Agriculture Requirements) – è ad oggi palesemente fuori legge, poiché confligge con norme di rango superiore nella gerarchia delle fonti, come la direttiva allergeni prima e il Reg. UE 1169/11 poi, oltre a essere una deroga mai notificata alla Commissione Europea».
Allergeni: un tema caldo
La prima normativa sui prodotti allergenici in Italia è stata il D.Lgs. 114/2006, ma con il Regolamento Ue 1169/2011 viene introdotto il dovere generalizzato di informare i consumatori in merito agli allergeni. La norma estende l’obbligo non più solo ai pubblici esercenti, ma a tutti coloro che vendono o somministrano alimenti in qualunque contesto. Il legislatore europeo, tuttavia, ha lasciato agli stati membri l’incombenza di stabilire quali fossero le idonee forme di comunicazione al consumatore. «Di conseguenza – racconta Nuciari – in Italia, nei primi tempi, si è assistito al “fai da te”, con la fantasia tipica del genio italico. Con la circolare del 06/02/2015, il Ministero della Sanità ha chiarito le modalità di indicazione degli allergeni che “possono essere riportate sui menù, su appositi registri o cartelli o su altro sistema equivalente, anche tecnologico, da tenere sempre in vista, così da consentire al consumatore di accedervi facilmente e liberamente”. Altra possibilità concessa nella circolare è quella di indicare “a voce” ai propri clienti gli eventuali allergeni utilizzati nella preparazione degli alimenti somministrati.
Il documento lascia liberi i gestori di scegliere la modalità da utilizzare per rendere edotto il consumatore finale, tuttavia – come spiega Dario Dongo, avvocato esperto di diritto alimentare internazionale e giornalista, fondatore di Wiise e cofondatore del Fatto Alimentare: « Le informazioni devono venire puntualmente riferite a ogni piatto o prodotto, e devono riportare – se del caso, attraverso la formula ‘può contenere’ – un’indicazione esatta degli ingredienti allergenici di cui trattasi. Elenchi generici di sostanze allergeniche sono invece da ritenersi del tutto inammissibili. Le informazioni devono inoltre essere registrate per iscritto, e comunicate con strumenti vari purché disponibili agli utenti finali e verificabili da parte delle autorità di controllo. Tenuto anche conto della privacy su dati sensibili come le vulnerabilità individuali, la richiesta non dev’essere necessaria». «Purtroppo – rileva Dongo – nonostante le disposizioni in materia di allergeni non siano recenti, ad applicarle sono ancora pochissimi operatori: un fatto gravissimo se si considera che alimenti privi delle indicazioni sugli allergeni sono da considerarsi a rischio sanitario e che la mancata informazione può avere conseguenze gravissime se non letali. In questo ambito l’Italia è senz’altro all’ultimo posto in Europa».
Dichiarazione nutrizionale: obbligatoria per chi?
Il dicembre scorso è entrato in vigore l’obbligo di inserire, nell’etichetta degli alimenti preimballati, una dichiarazione nutrizionale, ai sensi del regolamento UE 1169/2011. Il nuovo adempimento ha creato non poca confusione nel mondo artigiano: molti professionisti sono corsi ai ripari dotandosi di software ad hoc o rivolgendosi a consulenti per adeguarsi alle nuove disposizioni. In realtà, come è stato successivamente chiarito dal Ministero per lo Sviluppo Economico, con apposita circolare, gli operatori professionali sono marginalmente interessati da questa novità normativa. A fare chiarezza su questo punto ci aiuta Piero Nuciari: «L’obbligo della dichiarazione nutrizionale, riguarda i soli alimenti preimballati destinati alla vendita al consumatore finale (cui sono equiparate le collettività). Qualora i prodotti siano destinati alla vendita btob, l’informazione deve venire in ogni caso fornita, sia pure mediante documenti che accompagnano o precedono la consegna delle merci.
È da evidenziare che la dichiarazione nutrizionale non è invece richiesta sui preincarti, né sui cartelli di vendita dei prodotti sfusi, né sui registri e menù dei pubblici esercizi». L’allegato V del regolamento elenca tutti gli alimenti esclusi dal provvedimento, tra i quali si annoverano gli alimenti, anche confezionati in maniera artigianale, forniti direttamente dal fabbricante di piccole quantità di prodotti al consumatore finale o a strutture locali di vendita al dettaglio che forniscono al consumatore finale. «Quest’ultimo punto – prosegue Nuciari – ha inizialmente suscitato numerosi dubbi visto che la definizione di “piccole quantità” è risultata alquanto ambigua. Dubbi successivamente chiariti dal Ministero dello Sviluppo Economico con un’apposita circolare nella quale ha stabilito il significato dei termini utilizzati. Per alimenti artigianali si intendono gli alimenti forniti direttamente dal produttore al consumatore tramite proprio negozio oppure tramite strutture locali di vendita al dettaglio. Per strutture locali si intendono esercizi sul territorio della provincia dove si trova il produttore oppure nelle province limitrofe. La definizione di vendita al dettaglio viene rinviata all’art. 3, punto 7 del Reg. 178/2002/CE: “la movimentazione e la trasformazione degli alimenti e il loro stoccaggio nel punto di vendita o di consegna al consumatore finale, compresi i terminali di distribuzione, gli esercizi di ristorazione, le mense di aziende e istituzioni, i ristoranti e le altre strutture di ristorazione analoghe, i negozi, i centri di distribuzione per supermercati e i punti vendita all’ingrosso“». Dario Dongo ci fornisce un’interpretazione della circolare in termini operativi. «Per fabbricanti di piccole quantità di prodotti – spiega Dongo – si intendono le cosiddette microimprese, ovvero aziende con meno di 10 dipendenti e un giro d’affari inferiore ai 2 milioni di euro.
Quanto alla definizione di struttura locale, la Circolare del Ministero fa riferimento ad aziende che operino sul territorio della provincia e di province contermini, tuttavia, essendo la dichiarazione nutrizionale un’informazione non di rilievo sanitario, ritengo che un’ipotesi plausibile potrebbe anche essere quella di fare riferimento a macroaree, quali per esempio le aree Nielsen. Inoltre, ritengo che debbano essere esentate dalla dichiarazione nutrizionale anche quelle realtà che vendono i loro prodotti mediante e-commerce, in quanto rientrano nelle forme di vendita diretta, ovvero senza intermediari». «Va sottolineato – conclude Dario Dongo – che ci troviamo in un ambito nel quale la Commissione Europea non ha fornito indicazioni precise. Alcuni stati membri si sono attivati per sopperire a questa mancanza, ma in Italia, a distanza di quasi sei anni dall’entrata in vigore del Regolamento, non abbiamo ancora un decreto in materia. Questo a mio avviso danneggia tutti: i consumatori, gli operatori onesti e le stesse autorità preposte ai controlli, che non sono in grado di svolgere correttamente il loro lavoro».