E’ la tesi di Denis Pantini e Alessandra Moneti, autori del libro “Ci salveranno gli chef. Il contributo della cucina italiana alla crescita del sistema agroalimentare” (Agra Editrice) presentato nei giorni scorsi a Bologna, con la partecipazione dello chef Marcello Leoni, di Massimo Bergami (direttore dell’Alma Graduate School) e Paolo De Castro (Presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo).
In che modo la passione per la cucina influisce sui consumi alimentari? Come possono la ristorazione e la cucina italiana valorizzare il sistema agroalimentare che, considerato nella sua accezione più ampia di filiera, arriva a pesare sul PIL e sull’occupazione per il 14%? Secondo gli autori, le cui considerazioni si basano sui più recenti dati Nomisma, la ristorazione italiana ha un ruolo fondamentale nel sostenere le esportazioni dei nostri prodotti agroalimentari; senza dimenticare i consumi interni, che pare vengano positivamente influenzati dal crescente interesse verso i temi culinari, generato soprattutto dal successo mediatico di cui godono, negli ultimi tempi, gli chef.
L’importanza della ristorazione italiana all’estero
L’economia italiana – si legge nel comunicato stampa Nomisma – vede i consumi alimentari ridursi progressivamente, tanto da essere arrivati – in termini di spesa pro-capite attualizzata – agli stessi livelli degli anni ’60. Per fortuna c’è l’estero, si dirà. E in effetti le stime Nomisma sull’export alimentare italiano vedono per il 2013 il raggiungimento dell’ennesimo record a 27,4 miliardi di euro (considerando anche i prodotti agricoli il valore supera i 34 miliardi), evidenziando una crescita in dieci anni di oltre l’80%. Tuttavia, delle oltre 54.000 imprese alimentari italiane solamente il 12% esporta, per una propensione all’export pari al 20%, poca cosa se paragonato al 31% della Germania (per esportazioni superiori a 55 miliardi di euro) o al 25% della Francia. Le opportunità esistono, ma solo in pochi riescono a coglierle. Sono soprattutto le piccole imprese – che in Italia pesano per quasi il 90% sul totale del settore – ad avere difficoltà nel raggiungere i mercati esteri.
«Occorre una vera e propria politica economica dedicata all’agroalimentare – ha affermato Paolo De Castro – che supporti le nostre imprese nella conquista dei mercati esteri. La rilevanza socioeconomica del settore è talmente importante per il nostro Paese che non possiamo permetterci di non crescere all’estero, soprattutto in questo momento di crisi interna dei consumi. E’ importante quindi valorizzare le leve che possono fornire un supporto ai nostri produttori nello sviluppo dell’export e tra queste figura sicuramente la ristorazione italiana nel mondo».
Ma veniamo al punto: perché la ristorazione italiana all’estero può dare una mano proprio alle piccole imprese?
Secondo gli autori, in primis perché per accedere al canale della ristorazione ci sono meno ostacoli rispetto a quello della gdo, ma più in generale perché è grazie ai ristoranti italiani se molti dei nostri prodotti alimentari sono oggi conosciuti, apprezzati e consumati tra le mura domestiche in oltre 150 paesi al mondo.
«L’effetto più rilevante e utile ai produttori italiani – ha spiegato Denis Pantini – è proprio la capacità della ristorazione italiana di diffondere la conoscenza dei nostri prodotti nel mondo, arrivando – attraverso un processo di contaminazione – a farli inserire nelle abitudini alimentari dei consumatori locali. Basti citare, per tutti, il caso della Svezia: fino a metà degli anni ’90 in questo paese non si consumava pasta. Con la diffusione della cucina italiana – percepita come “buona” sia in termini salutistici che di gusto – oggi la Svezia rappresenta il quarto paese al mondo per consumi pro-capite di pasta».
«Ed è proprio l’offerta enogastronomica a motivare il viaggio in Italia – ha sottolineato Alessandra Moneti – per 730.000 turisti stranieri che ogni anno spendono su tutto il territorio nazionale 124 milioni di euro esclusivamente per vivere l’esperienza della vendemmia o degustare tartufi bianco e olio novello».
E in Italia? Può la ristorazione rivitalizzare i consumi?
L’interesse verso la cucina italiana appare in aumento, complice il successo mediatico delle tante trasmissioni.
Chiarisce Moneti: «Su Twitter si moltiplicano gli hashtag a tema wine and food, in una febbre che vede protagonisti gli stessi chef stellati, che anche attraverso chat e social interagiscono sempre di più facendo finalmente squadra. Ma se il mestiere di cuoco è sempre più ambito dai giovani che dal 2004 al 2012 hanno decuplicato le iscrizioni all’Alberghiero, occorre ora rivalutare i mestieri del cameriere e del banconista nelle migliori gastronomie. E’ infatti con loro che si relaziona il viaggiatore o il consumatore foodies, ed è pertanto il personale di sala e il venditore in enoteca un ambasciatore importante del patrimonio enogastronomico nazionale, il nostro petrolio».
Ma la vera domanda è: se la ristorazione italiana nel mondo può rappresentare una leva formidabile per trainare le nostre esportazioni, può l’interesse degli italiani per la cucina rivitalizzare i consumi alimentari nel mercato domestico?
La risposta viene dall’indagine Nomisma, presente nel libro, e rivolta a 1.000 responsabili di acquisto di prodotti alimentari delle famiglie italiane. La ricerca evidenzia come la passione per la cucina porti 3 italiani su 4 a seguire trasmissioni televisive e a navigare su siti e blog di cucina.
L’aspetto più interessante è che per il 54% degli “appassionati” l’interesse per la cucina si traduce anche in un cambiamento del comportamento d’acquisto o nelle modalità di consumo dei prodotti alimentari. I cambiamenti nel comportamento di acquisto alimentare indotti dalle trasmissioni televisive o dai siti internet interessano maggiormente i responsabili di acquisto di famiglie con figli, di professione operai o impiegati, inseriti in una fascia di reddito familiare medio-bassa, di genere femminile e di età compresa tra 30 e 44 anni. In particolare, i cambiamenti più intensi hanno riguardato con maggior frequenza le famiglie dove negli ultimi 12 mesi uno o più componenti ha perso il lavoro o è stato messo in cassa integrazione. Stando a questi risultati i programmi dedicati alla cucina pare abbiano avuto l’effetto di aiutare le famiglie italiane a risparmiare negli acquisti alimentari, magari sostituendo il consumo di piatti pronti con le preparazioni da realizzare direttamente in casa.
Dalla ricerca emerge inoltre che le persone che seguono costantemente i programmi televisivi sono più attente alla qualità dei prodotti e alla loro origine (in particolare aumenta la propensione all’acquisto di prodotti Dop e Igp), risultano più interessati al turismo enogastronomico e passano più tempo in cucina (81% degli “appassionati”), magari a scapito di un’uscita al ristorante. Il che può sembrare paradossale se si pensa che questo comportamento è spesso indotto dalle “prescrizioni” di uno chef.
In conclusione, quindi, questa “passione” per la cucina sembra tradursi in una riformulazione del paniere della spesa e degli stili di vita: gli italiani non rinunciano alla qualità di quello che mangiano, cercando di risparmiare allo stesso tempo.