Dovendo dare un sottotitolo a questo intervento, scriverei: “restare puri ma di nicchia o diventare globali, scendendo a patti con il capitalismo?”. Ora vi spiego. A pranzo con amiche, abbiamo commentato un articolo pubblicato su “La Repubblica” di oggi dedicato al fair trade, una forma economica i cui fatturati continuano a crescere. Non è facile difendere gli interessi dei contadini di terre lontane, dove vivono popolazioni ridotte alla più infima miseria. Il fattore critico oggi emerge sia a livello economico che filosofico. Rimanere produttori di nicchia o aprire alle multinazionali che accettano di sottostare alle regole del fair trade a danno dei piccoli produttori? Il rischio è che l’equo e solidale diventi un’operazione di marketing a scapito della giustizia sociale. Insomma “tutto fumo e niente arrosto”. Il dato reale è il desiderio sempre più forte del consumatore di essere informato rispetto a ciò che compra e consuma. Non è più tempo per la disinformazione, molti acquirenti prestano attenzione, vigilano su ciò che accade nel mercato. I marchi devono guardarsi dal commettere errori che potrebbero pagare a caro prezzo. Non ci resta che aspettare per vedere se la mossa degli americani di divorziare da Fair trade International in nome della globalizzazione sia un vero atto di tutela e di promozione dei o prodotti equo e solidali, o solo un modo per fare più business con le multinazionali. Il dibattito è aperto, anche perché talvolta dietro a iniziative benefiche si nasconde il peggior sfruttamento, come testimonia il caso, sempre riportato da “La Repubblica”, delle false certificazioni del Burkina Faso, dove schiave bambine raccoglievano cotone per i reggiseni di Victoria’ s Secret. Monica Viani
Si può fare del vero commercio equo e solidale senza arricchire le multinazionali?
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