Sul numero di novembre di Dolcesalato troverete un interessante speciale dedicato al panettone. Qui il testo integrale della tecnica che, per motivi di spazio, non abbiano potuto pubblicare integralmente sulla rivista cartacea.
Il periodo “caldo” della pasticceria si avvicina e in queste pagine vogliamo fornirvi alcuni spunti sul “re del Natale”, dolce che ormai si trova su tutte le tavole italiane e non più solo della Lombardia. Parleremo di lievito madre, delle materie prime principali che compongono il panettone, cercando di concentrare tutto in poche pagine. Il nostro compito come rivista tecnico-professionale, infatti, è quello di darvi degli input, di cercare di rispondere alle domande più comuni, ma le informazioni che troverete non potranno certamente sostituire la vostra professionalità, la conoscenza specifica di esperti in materia o ancora di libri sull’argomento.
Le materie prime
La farina. Sono tante le cose da dire su questa materia prima preziosissima per la buona riuscita di un lievitato come il panettone. Le farine ideali per la produzione di grandi lievitati sono quelle forti con un W che va da 350 ai 380. Queste farine sono dette “forti”, per la capacità del glutine di trattenere gas all’interno dell’impasto, esse sono quindi indicate per le lunghe fermentazioni, per ottenere prodotti voluminosi con un’alveolatura ben sviluppata. Sono farine ricavate da grani con contenuto proteico del 15-16%, essendo usate quasi esclusivamente per la produzione di lievitati.
Da sapere: “0” e “00” c’è ancora chi fa confusione. La farina doppio zero è più raffinata e ha un contenuto di ceneri molto basso, ma anche con meno proteine di una farina tipo zero. La farina doppio zero, quindi, non è più forte della zero, come spesso erroneamente si pensa, ma più “rigida”. Sono, infatti, le proteine a fornire estensibilità ed elasticità a questa materia. Dopo la macinazione, nelle farine rimane soprattutto la parte centrale e quindi la composizione chimica sarà essenzialmente di amido e poche proteine, presenti in scarse quantità anche zuccheri, grassi, sali minerali e cellulose. La farina in generale è composta da circa il 73% di carboidrati, 14/15% acqua, 10/11% proteine, 1% lipidi, 0,7% sali minerali e poche vitamine.
Le caratteristiche tecnologiche della farina rivestono un’importanza fondamentale cui nessun operatore dovrebbe prescindere, perché determinano il comportamento della materia prima in vari processi di lavorazione. Da esse dipende, infatti, la qualità dell’impasto e del prodotto finito. Tra queste sono importanti le caratteristiche reologiche (elasticità ed estensibilità) e del glutine, nonché le proprietà fermentative. Con la lettera P si indica la tenacità dell’impasto, con la L, invece, la sua estensibilità. Dal rapporto P/L è possibile valutare l’equilibrio tra tenacità ed estensibilità della farina. Quando P/L è inferiore a 0,40 le farine sono molto estensibili, collose durante la lavorazione e danno un prodotto poco sviluppato perchè la maglia glutinica non trattiene l’anidride carbonica prodotta dai lieviti. Quando P/L è superiore a 0,70, invece, le farine sono molto tenaci e difficili da impastare, anche in questo caso il prodotto sarà poco sviluppato. Il valore ottimale è compreso tra 0,40 e 0,70. Dal valore di W è possibile quantificare la forza dell’impasto e la qualità tecnologica della farina. Per W inferiori a 150 le farine sono deboli, gli impasti collosi e difficili da lavorare. Se il valore è compreso tra 150 e 170 la forza è mediocre. Tra 170 e 250 la forza è media, tra 250 e 310 parliamo di farine forti. Quando i valori di W superano i 310 siamo in presenza di farine molto forti che richiedono lunghe lievitazioni. La forza della farina dipende soprattutto dalla quantità e qualità del glutine: più è alto il contenuto di glutine nella farina più elevato sarà il suo valore di forza. Quest’ultima è, inoltre, influenzata dall’amido, dalla sua “attaccabilità” e dagli enzimi amilasi. Una farina forte ha una grossa capacità di trattenere anidride carbonica e, avendo una maglia glutinica molto resistente, dà origine a un impasto asciutto ed elastico.
La forza della farina definisce:
– la quantità di acqua necessaria nell’impasto e il tempo di impasto;
– le caratteristiche dell’impasto stesso;
– la variazione dell’impasto durante la fermentazione, la formatura, la lievitazione e la cottura;
– lo sviluppo del prodotto durante la lievitazione;
– i tempi e i parametri della lievitazione stessa;
– il volume del prodotto finito, la sua forma e le caratteristiche della mollica.
Il potere diastasico è la capacità delle amilasi di rompere i legami di carbonio e di convertire gli zuccheri presenti nella farina in anidride carbonica e acqua. Il lievito presente nell’impasto determina la fermentazione utilizzando inizialmente gli zuccheri della farina e, successivamente, il glucosio formato dall’idrolisi dell’amido sotto l’azione delle alfa e beta amilasi.
La capacità fermentativa della farina permette di prevedere l’attività della fermentazione dell’impasto e, in base alla quantità e qualità di glutine, si può conoscere il volume e la porosità del prodotto finito. Quando la capacità fermentativa è più alta, nell’impasto si formano più zuccheri, il processo di fermentazione è più rapido e la crosta del prodotto finito avrà un colore più intenso. Se la capacità fermentativa di una farina è troppo alta significa che le alfa e beta amilasi sono troppo attive (può succedere quando il grano o la farina sono stati conservati in ambiente umido), si consiglia, quindi, di evitare l’uso di questa farina perché darebbe origine a un impasto colloso, appiccicoso e il prodotto finito risulterebbe scadente.
Il burro
Per legge il burro prodotto nella Comunità Europea deve avere un contenuto minimo di sostanza grassa dell’82%, anche se esistono in commercio tipi di burro cosiddetti light con ridotto tenore di grasso (60-62%) o a basso tenore di grasso (39-41%). Questi ultimi contengono più acqua e si alterano più facilmente e velocemente. Un ottimo burro per la pasticceria, con una lunga conservabilità, perché sostanzialmente privo d’acqua, è il burro anidro o concentrato contenente dal 99,7 al 99,9% di materia grassa in base alle tipologie. In tutti i casi, è bene prestare sempre molta attenzione alla freschezza del burro, l’irrancidimento, infatti, è la sua principale forma di alterazione. Si consiglia quindi di conservarlo sempre al fresco e avvolto con carta pergamena: se viene a contatto con altre sostanze, ne assorbe l’odore diventando sgradevole. Il burro deve avere un aspetto uniforme, senza macchie o chiazze e non deve contenere troppa umidità. Se un burro contiene molta acqua, quando viene tagliato presenterà delle gocce sulla superficie di taglio.
È utile sapere che: Il burro, oltre che dal contenuto di materia grassa, è classificabile anche in base al suo punto di goccia, meglio conosciuto come punto di fusione, aspetto molto importante in pasticceria. Il punto di fusione del burro è piuttosto basso, questo lo rende facilmente digeribile, ma anche inadatto ad alcuni tipi di cottura come per esempio la frittura. Il burro tecnico viene prodotto per andare incontro alle esigenze degli operatori ed esistono tipi di burro con punti di fusione fino a 38°C. Per variare il punto di fusione del burro si agisce sulla sostanza attraverso il frazionamento del prodotto. La materia grassa del latte ha circa duecento tipi diversi di trigliceridi che hanno punti di fusione variabili da -40° a +70°C. Il punto di goccia del burro è il risultato della mescolanza di tutte queste temperature. Un aspetto di cui spesso non si parla, ma che è di fondamentale importanza nell’ambito della pasticceria, forse anche più del punto di goccia, è la curva di fusione. Essa indica la progressione con cui il burro perde solidità, ovvero quanta materia solida è presente ancora nel burro man mano che la temperatura sale. Se un burro fonde a 32°, ma a 15°C la curva di fusione tende già molto verso il basso, significa che la struttura a 15°C contiene poca sostanza solida, quindi si tratterà di un burro poco adatto, per esempio, alla lavorazione della sfoglia. Il “burro d’inverno” ha una curva di fusione di qualche grado più alta rispetto al “burro d’estate”, quindi alle stesse temperature sarà leggermente più duro. Questi due aspetti influenzano le caratteristiche tecniche del burro – e anche di altri grassi – che per le applicazioni di pasticceria è valutato secondo precisi parametri quali la struttura o consistenza, il potere fondente, la capacità emulsionante, la plasticità e il creaming (capacità di un grasso di inglobare aria quando viene sbattuto con lo zucchero).
Burro e lievitati: La considerevole quantità di acidi grassi a catena corta del burro lo rendono particolarmente plastico e in grado di conferire morbidezza ai prodotti da forno. Durante la fase di impastamento, infatti, il burro tende a incorporare aria, favorendo la lievitazione del prodotto. Nel caso delle paste lievitate e dei lievitati in genere, il burro ha la specifica funzione di conferire morbidezza, dare gusto alla pasta e amalgamarsi bene. È possibile utilizzare un burro tradizionale con un punto di fusione standard intorno ai 32°C o leggermente più basso. Visto che la funzione della materia grassa è quella di incorporarsi bene all’impasto, se si desidera, è possibile aggiungere anche burro liquido a basso punto di fusione, senza però esagerare, perché se da una parte il burro liquido accentua la morbidezza del prodotto dall’altra ne impedirebbe una corretta fermentazione, la pasta, infatti, non sarebbe sufficientemente legata per ritenere il gas carbonico prodotto durante la lievitazione. Il burro liquido, inoltre, intensifica il sapore di burro e prolunga la shelf-life del prodotto finito.
L’influenza delle uova sugli impasti
Uova intere: non influenzano solo l’impastamento, ma anche la struttura della pasta, perché favoriscono una migliore distribuzione dei grassi che rende stabile la tessitura del prodotto durante la cottura. La presenza delle uova rende la mollica più soffice, sottile, colorata e aromatica. In particolare, in base al tipo di prodotto che si deve preparare, uova intere, tuorli e albumi, possono essere usati separatamente, in maniera differente, ed essere inseriti nella ricetta in momenti diversi, proprio per ottenere dalle caratteristiche tecniche di ognuno il massimo della resa.
Albumi: è una sostanza altamente montante, esso è infatti in grado di inglobare cinque volte il suo volume d’aria. Attraverso lo sbattimento aumenta il volume delle masse a spuma più o meno consistente in base al tempo, alla temperatura e al metodo di montatura. È in grado di donare sofficità, volume e struttura negli impasti. Le bolle d’aria presenti nell’impasto, infatti, durante la cottura si dilatano favorendo l’aumento di volume.
Tuorli: sono utilizzati per favorire l’emulsione delle sostanze grasse, apportare colore e sapore caratteristici al prodotto, migliorandone la consistenza. La capacità di inglobare aria del tuorlo è pari a tre volte il suo volume. Bisogna tuttavia prestare attenzione perché, in alcune preparazioni, la fase di montaggio e la conseguente incorporazione d’aria può diventare un problema perché l’aria funge da isolante.
Lo zucchero e la reazione di Maillard
È grazie a questa reazione che il panettone prende quel tipico colore e sprigiona il suo fbtastico aroma.
Ma di cosa si tratta? È una trasformazione delle proteine che prende il nome da colui che ne scoprì per primo il fenomeno all’inizio del ‘900. La reazione di Maillard avviene in quei prodotti che contengono zuccheri (soprattutto glucosio) e proteine, ed è favorita da calore, luce, metalli e ambiente leggermente basico. Questa reazione dà origine a composti di varia natura che, a seconda della situazione, possono dare caratteristiche positive o negative all’alimento. Nel latte sterilizzato, per esempio, contribuisce a dare lo sgradevole sapore di cotto e il colore grigio. Ma in altri casi, come nei prodotti da forno, è responsabile dell’aroma piacevole.
Zucchero e sale sono in grado di assorbire umidità influendo sull’attività vitale del lievito. Il sale ha il potere di abbassare l’attività vitale di tutti i microrganismi in generale (sia dei lieviti sia del batteri lattici, ecc.), svolgendo un’azione “disinfettante” nella pasta e contribuendo a ridurne l’acidità. Il sale, se messo a diretto contatto con il lievito, tuttavia, lo uccide, perché attorno a ogni cellula di lievito si crea una pressione osmotica elevata (plasmolisi), in grado di distruggere la cellula stessa. Lo zucchero è un nutrimento del lievito, ma se inserito nell’impasto in quantità elevate contribuisce a rallentare la lievitazione, uccidendo il lievito proprio come il sale.
I canditi
Demonizzati dal grande pubblico a causa della qualità scadente utilizzata dall’industria, tant’è che il consumatore ha iniziato a richiedere panettone senza canditi, e l’industria ha risposto alla domanda. Ma come si deve comportare un artigiano che, invece, fa della qualità la sua arma vincente. Prima di tutto deve sapere riconoscere un buon candito da uno di scarse qualità e poi deve saper trasmettere tutto ciò al proprio cliente.
Come riconoscere un candito di qualità? L’assenza di anidride solforosa nel processo produttivo, essa, infatti, influisce negativamente sul colore e il sapore del frutto. È possibile, infatti, riconoscere un candito trattato con anidride solforosa dal suo aspetto ma anche dal sapore, il frutto perde colore e l’aroma caratteristici. Un candito non trattato con anidride solforosa generalmente presenta un colore più scuro ed è molto più aromatico e naturale. Un candito di qualità deve essere omogeneo nel formato (i cubetti o i frutti interi devono essere tutti della stessa dimensione o calibro). Il colore deve essere il più naturale possibile (quindi senza aggiunta di coloranti o altri additivi). All’apertura della confezione non bisogna percepire un aroma pungente, questo, infatti, indicherebbe l’aggiunta di aromi. Quando lo si assaggia deve essere morbido (la morbidezza deve essere una costante di tutta la confezione non solo di alcuni canditi), bisogna percepire una leggera opposizione alla masticazione e subito dopo il prodotto deve sciogliersi con facilità, quindi non deve essere né legnoso, né gommoso. La gommosità è data da un eccessivo uso di glucosio nella composizione dello sciroppo di canditura, che evita il formarsi di cristalli anche a elevate concentrazioni zuccherine. Il frutto candito deve sprigionare la naturale aromaticità della materia prima di partenza, senza essere pungente. È quindi importante riconoscere il sapore originario del frutto senza una predominanza della dolcezza dello zucchero. Nel caso degli agrumi anche uno spessore abbastanza alto vicino alla scorza è indice di qualità.
Come si conservano? Una volta acquistati, i canditi sotto sciroppo, che hanno subito pastorizzazione, non hanno particolari problemi di conservazione. Quelli asciutti o “colati” sono, invece, più sensibili: devono essere sempre essere tenuti lontano da fonti di calore e a un massimo di 18°C. Se confezionati ermeticamente, una volta aperti, vanno tenuti in frigorifero.
Ma perché servono i canditi nel panettone? Il candito, oltre a una funzione insaporente e di caratterizzazione del prodotto, svolge anche una funzione tecnica molto importante. Esso, infatti, grazie all’igroscopicità dello zucchero che contiene, contribuisce a mantenere umidità all’interno del prodotto, allungando di conseguenza la durata dello stesso. Un panettone con canditi, quindi, avrà una shelf-life superiore dello stesso prodotto privo di canditi. I canditi sono quindi ottimi in tutte quelle specialità con un contenuto di acque libere superiore al 4%. In questi casi, infatti, oltre a conferire gusto, i canditi servono proprio per trattenere l’acqua, lasciando il prodotto umido più a lungo e allungandone, così, la conservabilità.
Il lievito madre
Come anticipato non possiamo, in poche righe, sostituire l’esperienza e la professionalità di chi lavora il lievito madre e produce panettoni artigianali da generazioni. Non vi diremo né cos’è il lievito madre, né come si realizza, perché sono informazioni note, che potete trovare su qualsiasi manuale professionale, tuttavia desideriamo darvi alcuni consigli importanti, per non dimenticare che avete a che fare con una materia viva, da curare come se fosse un figlio, ed è questo, forse, il rapporto che si instaura tra l’artigiano e il “suo” lievito madre, tant’è che alcuni lo “battezzano” proprio come si fa con i bambini.
I rinfreschi. Si tratta di una fase fondamentale nella preparazione del lievito madre cui bisogna procedere con estrema cura e pulizia sia dell’ambiente di lavoro sia delle attrezzature. La pulizia è un aspetto da non sottovalutare in tutto il processo di preparazione del lievito naturale, poiché qualsiasi contatto con batteri “nemici” del lievito può compromettere tutto il lavoro. Per i rinfreschi, per esempio, si utilizza la parte centrale del lievito, perché la crosta potrebbe essere inquinata da microrganismi indesiderati.
Solitamente i rinfreschi precedono l’impasto finale e hanno lo scopo di rinforzare il lievito, ovvero potenziare le sue capacità fermentative e, nello stesso tempo, abbassare il suo grado di acidità, rendendolo idoneo all’impasto finale. La quantità dei rinfreschi dipende dalle caratteristiche del lievito e dal prodotto da realizzare. Per le ricette di pane sono necessari in media tre rinfreschi, per quelle di pasticceria, molto più ricche di ingredienti pesanti per il lievito come la materia grassa, lo zucchero, i tuorli d’uovo, ecc. possono essere necessari più rinfreschi, anche quattro o cinque.
A una parte di lievito bisogna aggiungere della farina e dell’acqua (normalmente il 50% sulla farina aggiunta), in modo da ottenere un impasto morbido. A un chilo di lievito aggiungeremo per esempio un chilo e cento grammi di farina (+10%) e cinquecento grammi d’acqua. Essendo i rinfreschi determinanti per la buona riuscita del lievito, anche le dosi di farina e acqua devono essere valutate con una certa accortezza sia in base alle caratteristiche del lievito e alla ricetta da realizzare sia in base all’esperienza e praticità dell’operatore. Anche la temperatura dell’impasto e il tempo di maturazione possono variare secondo le caratteristiche del lievito e del prodotto finale che si vuole ottenere. La fase di fermentazione sarà giunta al termine quando il lievito avrà triplicato il suo volume iniziale. Il lievito maturo è soffice, ha un gusto dolce-acido, è chiaro e non deve avere un odore pungente.
L’acidità del lievito: il pH, l’acido lattico e l’acido acetico. L’acidità è uno degli aspetti principali da tenere in considerazione per valutare la buona riuscita del lievito madre. Il pH è la scala con cui si valuta l’acidità di un ambiente: l’acqua, per esempio, è un ambiente neutro con un pH pari a 7 (la misurazione va da 0 a 14). Quando il pH supera il valore 7 l’ambiente è basico; quando è inferiore a 7 siamo in ambiente acido. Di conseguenza, tanto più basso sarà il valore di pH, tanto più acido sarà l’ambiente. Per il lievito madre, il pH ideale è compreso tra 4.5 e 4.8. Il valore può tuttavia essere anche più basso (comunque non inferiore a 3.9), dipende, infatti, dalla tipicità del prodotto e dal gusto più o meno acido che si desidera ottenere. Il pH si misura con uno strumento apposito, il piaccametro, che misura il potenziale idrogenionico (idrogenione = ione idrogeno) della pasta e che consiste nella quantità di ioni h+ (idrogeno) presenti nell’acqua libera dell’impasto. Più il numero di ioni è elevato, più basso sarà il pH. Misurando solo l’acidità totale, il pH non è un valore del tutto attendibile, infatti è importante sapere anche di quali acidi è composto il lievito. Il pH, inoltre, non dà la forza del lievito in senso assoluto, per quanto sia a esso correlato. Per avere risultati più scientifici bisognerebbe, infatti, titolare la quantità di acido lattico e di acido acetico. Si tratta di un procedimento molto complesso che può essere effettuato solo in laboratori di analisi chimica. I due acidi sono quelli maggiormente prodotti in un impasto lievitato da parte dei batteri lattici. Essi svolgono molteplici funzioni all’interno di un prodotto lievitato: interferiscono, per esempio, sulle proprietà reologiche dell’impasto (elasticità, capacità di assorbimento dell’acqua, capacità di trattenere l’anidride carbonica), modificandone la consistenza. L’acido lattico conferisce alla pasta più estensibilità, mentre quello acetico rende il glutine più resistente. Questi due acidi contribuiscono, inoltre, alla formazione degli aromi durante la cottura. Con il calore, l’acido lattico e l’acido acetico si uniscono all’alcool etilico prodotto dalla fermentazione alcolica dei lieviti, formando numerose sostanze volatili aromatizzanti (es. aldeidi e chetoni). L’acido lattico e l’acido acetico devono essere in equilibrio (la proporzione ideale è: tre parti di lattico e una di acetico; un lievito naturale di buona qualità deve sempre rispettare questa proporzione) per evitare la formazione di aromi sgradevoli e gusto troppo acido. L’acido lattico contribuisce alla formazione di aromi gradevoli, una preponderanza di acido acetico, invece, produce un aroma acre troppo forte e non gradito. Insieme agli altri acidi organici contenuti nell’impasto, questi creano un ambiente acido sia nella pasta sia nel prodotto, favorendo lo sviluppo dei lieviti durante la maturazione dell’impasto e allungando la shelf-life del prodotto finito.
Gli elementi che influenzano la fermentazione del lievito
Sono numerosi gli aspetti che concorrono allo sviluppo del lievito madre. Esso, infatti, possiede una microflora complessa in continua evoluzione che può modificarsi facilmente con il variare delle condizioni ambientali come temperatura e umidità, ma anche di altri parametri come la farina utilizzata (elemento fondamentale) o il tasso di idratazione. Queste variabili possono causare lo sviluppo di microrganismi diversi, che determinano il cambiamento delle caratteristiche organolettiche (sapore, odore, grado di acidità), reologiche e fermentative del lievito. L’aumento di temperatura e di umidità, per esempio, favoriscono lo sviluppo dell’attività metabolica e fermentativa dei microrganismi, quindi un accumulo eccessivo di acidi organici nell’impasto. Il tasso di umidità dell’ambiente di maturazione del lievito deve essere moderato per evitare il deterioramento delle caratteristiche dell’impasto a causa di un’acidità troppo accentuata.
La temperatura: gioca un ruolo determinante nella riuscita del lievito madre. Ogni microrganismo, infatti, necessita di una temperatura ottimale per svolgere le proprie funzioni, modificando tale fattore, quindi, si favorisce la crescita di alcuni microrganismi e l’inibizione di altri. La temperatura influisce, inoltre, sull’equilibrio dell’acido lattico e dell’acido acetico che, come già accennato, devono essere in rapporto di tre a uno. Temperature più basse contribuiscono allo sviluppo di acido acetico, mentre quelle alte favoriscono lo sviluppo di acido lattico. La temperatura (dell’impasto) adatta a una maturazione ottimale del lievito è mediamente di 27°C, anche se può oscillare tra i 24° e i 28°C. Anche la temperatura dell’acqua è importante, non deve essere calda, ma sui 20°C o meno.
La pulizia dell’ambiente è un fattore che influisce sulla buona riuscita del lavoro: un luogo poco pulito o “contaminato” da altre produzioni può, infatti, inquinare il lievito con microrganismi indesiderati.
La qualità della farina impiegata per la lavorazione di lievito madre è un altro elemento determinante. La farina deve essere abbastanza forte, ma allo stesso tempo elastica ed equilibrata, per favorire un ottimo sviluppo del lievito e una buona resistenza durante le ore di fermentazione. L’aumento del tasso d’idratazione dell’impasto, infine, permette l’attivazione di tutti i microrganismi presenti nel lievito, determinando l’incremento dell’attività fermentativa e dell’acidità del prodotto.
di Anna Celenta
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